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Chi ha manipolato realmente la Bibbia?

Ultimo Aggiornamento: 14/04/2006 08:49
28/02/2006 10:00
 
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Scritto da: ora basta 28/02/2006 9.43
Perché il nome divino per intero non compare in nessuno degli antichi manoscritti delle Scritture Greche Cristiane che ci sono pervenuti?

L’argomento addotto per molto tempo era che gli scrittori ispirati delle Scritture Greche Cristiane citavano le Scritture Ebraiche dalla Settanta, e dal momento che quella versione sostituiva il Tetragramma con Kyrios o Theòs, questi scrittori non usarono il nome Geova. Com’è stato spiegato, questo argomento non è più valido. Osservando che i più antichi frammenti della Settanta greca conservano il nome divino nella forma ebraica, P. E. Kahle dice: “Ora sappiamo che il testo greco della Bibbia [la Settanta] in quanto scritto da ebrei per ebrei non traduceva il nome divino con kyrios, ma in tali MSS [manoscritti] era conservato il Tetragramma scritto in caratteri ebraici o greci. Furono i cristiani a sostituire il Tetragramma con kyrios, quando il nome divino scritto in caratteri ebraici non era più comprensibile”. (The Cairo Geniza, Oxford, 1959, p. 222) Quando avvenne questo cambiamento nelle traduzioni greche delle Scritture Ebraiche?

Evidentemente avvenne nei secoli successivi alla morte di Gesù e degli apostoli. Nella versione greca di Aquila, che risale al II secolo E.V., compariva ancora il Tetragramma in caratteri ebraici. Verso il 245 E.V., il noto studioso Origene produsse la sua Esapla, che su sei colonne contiene le ispirate Scritture Ebraiche, (1) nell’originale ebraico e aramaico, accompagnato da (2) una traslitterazione in greco, e dalle versioni greche (3) di Aquila, (4) di Simmaco, (5) dei Settanta, e (6) di Teodozione. In base alle copie frammentarie ora conosciute, W. G. Waddell dice: “Nell’Esapla di Origene . . . le versioni greche di Aquila, di Simmaco e dei LXX rappresentano tutte JHWH con ????; nella seconda colonna dell’Esapla il Tetragramma era scritto in caratteri ebraici”. (The Journal of Theological Studies, Oxford, vol. XLV, 1944, pp. 158, 159) Altri ritengono che il testo originale dell’Esapla di Origene contenesse il Tetragramma in caratteri ebraici in tutte le colonne. Origene stesso scrive che “nei manoscritti più fedeli IL NOME ricorre in caratteri ebraici, ma non nei [caratteri] ebraici odierni, bensì nei più antichi”.

Ancora nel IV secolo E.V., Girolamo, il traduttore della Vulgata latina, dice nel prologo ai libri di Samuele e Re: “In certi volumi greci troviamo tuttora il nome di Dio, il Tetragramma [cioè, ????], espresso in caratteri antichi”. In una lettera scritta a Roma nel 384 E.V., Girolamo dice: “Il nono [nome di Dio] è composto di quattro lettere (tetragramma); lo si pensava anecfòneton, cioè ineffabile, e si scrive con queste lettere: iod, he, vau, he. Ma alcuni non l’hanno decifrato a motivo della rassomiglianza dei segni; e quando lo hanno trovato nei libri greci l’hanno letto di solito [????, lettere greche che corrispondono alle romane PIPI]”. — Le lettere, Roma, 1961, vol. I, pp. 237, 238; cfr. J. P. Migne, Patrologia latina, vol. 22, coll. 429, 430.

Quindi i cosiddetti cristiani che si permisero di “sostituire il Tetragramma con kyrios” nelle copie della Settanta non erano i primi discepoli di Gesù. Erano persone che vissero nei secoli successivi, quando la predetta apostasia si era già affermata e aveva corrotto i puri insegnamenti cristiani. — 2Ts 2:3; 1Tm 4:1.

Usato da Gesù e dai discepoli. Ai giorni di Gesù e dei discepoli il nome divino compariva senz’altro nelle copie delle Scritture, sia nei manoscritti in ebraico che in quelli in greco. Gesù e i discepoli usavano dunque il nome divino nel parlare e nello scrivere? Dal momento che Gesù condannava le tradizioni farisaiche (Mt 15:1-9), sarebbe del tutto irragionevole concludere che Gesù e i discepoli si lasciassero influenzare al riguardo da idee farisaiche (come quelle riportate nella Mishnàh). Il nome stesso di Gesù significa “Geova è salvezza”. Egli disse: “Sono venuto nel nome del Padre mio”. (Gv 5:43) E insegnò ai suoi seguaci a pregare: “Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome”. (Mt 6:9) Le sue opere, disse, erano compiute “nel nome del Padre” (Gv 10:25), e in preghiera, la sera prima di morire, disse che aveva reso manifesto ai discepoli il nome del Padre suo e chiese: “Padre santo, vigila su di loro a motivo del tuo nome”. (Gv 17:6, 11, 12, 26) Perciò, quando citava o leggeva le Scritture Ebraiche, Gesù certamente usava il nome divino, Geova. (Cfr. Mt 4:4, 7, 10 con De 8:3; 6:16; 6:13; Mt 22:37 con De 6:5; Mt 22:44 con Sl 110:1; e Lu 4:16-21 con Isa 61:1, 2). Logicamente i discepoli di Gesù, fra cui gli scrittori ispirati delle Scritture Greche Cristiane, avranno seguito in questo il suo esempio.

Perché allora il nome non compare nei manoscritti delle Scritture Greche Cristiane, il cosiddetto Nuovo Testamento, che ci sono pervenuti? Evidentemente perché quando furono fatte quelle copie (dal III secolo E.V. in poi) il testo originale degli scritti degli apostoli e dei discepoli era già stato alterato. Quindi copisti successivi devono aver sostituito il nome divino nella forma del Tetragramma con Kyrios e Theòs (ILLUSTRAZIONE, vol. 1, p. 324), proprio come era avvenuto nelle copie più tarde della traduzione dei Settanta delle Scritture Ebraiche.

Il nome divino nelle traduzioni. Riconoscendo come stavano le cose, alcuni traduttori hanno usato il nome “Geova” nelle loro traduzioni delle Scritture Greche Cristiane. The Emphatic Diaglott, traduzione inglese del XIX secolo ad opera di Benjamin Wilson, contiene diverse volte il nome Geova (Jehovah), specie dove gli scrittori cristiani citavano le Scritture Ebraiche. Ma già nel XIV secolo il Tetragramma aveva cominciato a essere usato in traduzioni delle Scritture Cristiane in ebraico, a partire dalla traduzione ebraica di Matteo incorporata nell’opera ´Èven bòchan di Shem Tob ben Isaac Ibn Shaprut. Questa traduzione, ogni volta che Matteo citava le Scritture Ebraiche, riporta il Tetragramma in tutti i casi in cui ricorre. Molte altre versioni ebraiche in seguito hanno fatto lo stesso.

In quanto alla correttezza di questa impostazione, si noti la seguente dichiarazione fatta prima del ritrovamento di manoscritti comprovanti che la Settanta greca conteneva in origine il nome Geova: “Se quella versione [LXX] avesse ritenuto il termine [Geova], oppure avesse usato un termine greco per Geova e un altro per Adonai, tale uso sarebbe stato senz’altro seguito nei discorsi e nelle argomentazioni del N. T. Quindi nostro Signore, nel citare il 110° Salmo, invece di dire ‘Il Signore ha detto al mio Signore’, avrebbe potuto dire: ‘Geova ha detto ad Adoni’”. — R. B. Girdlestone, Synonyms of the Old Testament, 1897, p. 43.

Proseguendo il ragionamento (che ora risulta basato su fatti reali) viene detto: “Supponiamo che uno studioso cristiano stesse traducendo in ebraico il Testamento Greco: ogni volta che incontrava il termine ??????, egli avrebbe dovuto valutare se nel contesto c’era qualche cosa che indicasse il vero corrispondente ebraico; e questa è la difficoltà che sarebbe sorta nel tradurre il N. T. in qualsiasi lingua se il titolo Geova fosse stato lasciato nell’A. T. [LXX]. Le Scritture Ebraiche avrebbero costituito una norma per molti brani: infatti ogni volta che ricorre l’espressione ‘l’angelo del Signore’, sappiamo che il termine Signore rappresenta Geova; si poteva giungere a una conclusione simile per l’espressione ‘la parola del Signore’, secondo il precedente stabilito dall’A. T.; e così anche nel caso del titolo ‘il Signore degli Eserciti’. Quando invece ricorre l’espressione ‘Mio Signore’ o ‘Nostro Signore’, dovremmo sapere che sarebbe inammissibile il termine Geova, e si dovrebbe usare Adonai o Adoni”. (R. B. Girdlestone, op. cit., p. 43) Per questa ragione traduzioni delle Scritture Greche (già menzionate) contengono il nome Geova.

Notevole a questo riguardo è la Traduzione del Nuovo Mondo, usata in questa pubblicazione, in cui il nome divino nella forma “Geova” ricorre 237 volte nelle Scritture Greche Cristiane. Com’è già stato spiegato, ci sono valide ragioni per far questo.

Antico uso del nome e suo significato. I versetti di Esodo 3:13-16 e 6:3 sono spesso stati erroneamente citati per dimostrare che il nome di Geova fu rivelato per la prima volta a Mosè qualche tempo prima dell’esodo dall’Egitto. È vero che Mosè aveva chiesto: “Supponiamo che ora io sia andato dai figli d’Israele e realmente dica loro: ‘L’Iddio dei vostri antenati mi ha mandato a voi’, ed essi realmente mi dicano: ‘Qual è il suo nome?’ Che dirò loro?” Ma questo non significa che lui o gli israeliti non conoscessero il nome di Geova. Il nome stesso di Iochebed madre di Mosè forse significa “Geova è gloria”. (Eso 6:20) La domanda di Mosè probabilmente era dovuta alle circostanze in cui si trovavano i figli d’Israele. Da diversi decenni erano in dura schiavitù e non c’era segno che la situazione sarebbe migliorata. Dubbio, scoraggiamento e poca fede nel proposito e nel potere di Dio di liberarli si erano molto probabilmente insinuati fra loro. (Vedi anche Ez 20:7, 8). Se Mosè avesse detto semplicemente di essere venuto nel nome di “Dio” (´Elohìm) o del “Sovrano Signore” (´Adhonài) questo non avrebbe avuto molto significato per gli israeliti sofferenti. Essi sapevano che gli egiziani avevano i loro dèi e signori e senza dubbio avevano subìto gli scherni degli egiziani, i quali sostenevano che i loro dèi fossero superiori al Dio degli israeliti.

Inoltre si deve ricordare che allora i nomi avevano molta importanza e non erano semplici “etichette” che identificavano l’individuo come avviene oggi. Mosè sapeva che il nome di Abramo (che significa “padre è alto [esaltato]”) era stato cambiato in Abraamo (che significa “padre di una folla [moltitudine]”), cambiamento dovuto al proposito di Dio per Abraamo. Anche il nome di Sarai era stato cambiato in Sara e quello di Giacobbe in Israele, e in ogni caso il cambiamento aveva rivelato qualcosa di fondamentale e profetico circa il proposito di Dio per loro. Mosè poteva ben chiedersi se ora Geova si sarebbe rivelato sotto un nome nuovo per far luce sul suo proposito di liberare Israele. Presentarsi agli israeliti nel “nome” di Colui che lo mandava avrebbe indicato che Mosè era il Suo rappresentante, e la misura dell’autorità con cui avrebbe parlato sarebbe stata determinata da quel nome o proporzionata a quello che esso rappresentava. (Cfr. Eso 23:20, 21; 1Sa 17:45). Perciò la domanda di Mosè non era senza senso.

In ebraico la risposta di Dio fu: ´Ehyèh ´Ashèr ´Ehyèh. Alcune traduzioni la rendono “Io sono colui che sono”. Va però notato che il verbo ebraico hayàh, da cui deriva il termine ´Ehyèh, non significa semplicemente “essere”, bensì “divenire” o “mostrare d’essere”. L’espressione ebraica non fa riferimento all’autoesistenza di Dio, ma a ciò che egli ha in mente di divenire nei confronti di altri. Perciò la Traduzione del Nuovo Mondo la rende correttamente: “IO MOSTRERÒ D’ESSERE CIÒ CHE MOSTRERÒ D’ESSERE”. Quindi Geova aggiunse: “Devi dire questo ai figli d’Israele: ‘IO MOSTRERÒ D’ESSERE mi ha mandato a voi’”. — Eso 3:14, nt.

Che il nome di Dio non fosse cambiato, ma che questa dichiarazione aiutava solo a comprendere meglio la sua personalità, è dimostrato dalle sue successive parole: “Devi dire questo ai figli d’Israele: ‘Geova l’Iddio dei vostri antenati, l’Iddio di Abraamo, l’Iddio di Isacco e l’Iddio di Giacobbe, mi ha mandato a voi’. Questo è il mio nome a tempo indefinito, e questo è il memoriale di me di generazione in generazione”. (Eso 3:15; cfr. Sl 135:13; Os 12:5). Il nome Geova deriva dal verbo hawàh, “divenire”, e in effetti significa “Egli fa divenire”. Geova si rivela come Colui che, in maniera progressiva, diviene il Realizzatore delle sue promesse. Quindi porta sempre a compimento il suo proposito. Solo il vero Dio poteva legittimamente e autenticamente avere tale nome.

Questo aiuta a capire il senso delle successive parole che Geova rivolse a Mosè: “Io sono Geova. E apparivo ad Abraamo, Isacco e Giacobbe come Dio Onnipotente, ma rispetto al mio nome Geova non mi feci conoscere da loro”. (Eso 6:2, 3) Dato che il nome Geova era stato usato molte volte dai patriarchi antenati di Mosè, evidentemente Dio intendeva dire che come Geova si era manifestato loro solo in modo limitato. Per esempio: chi aveva conosciuto Abramo non poteva dire di averlo realmente conosciuto come Abraamo (“padre di una folla [moltitudine]”) finché aveva un solo figlio, Ismaele. Quando nacquero Isacco e altri figli e questi cominciarono ad avere una discendenza, il nome Abraamo assunse maggiore significato o importanza. Così anche il nome Geova avrebbe ora potuto assumere un significato più ampio per gli israeliti.

Quindi “conoscere” non significa necessariamente essere solo al corrente o informato in merito a qualcosa o qualcuno. Lo stolto Nabal conosceva il nome di Davide, eppure chiese: “Chi è Davide?”, volendo intendere: “Che importanza ha Davide?” (1Sa 25:9-11; cfr. 2Sa 8:13). Anche Faraone aveva detto a Mosè: “Chi è Geova, perché io debba ubbidire alla sua voce e mandare via Israele? Non conosco affatto Geova e, per di più, non manderò via Israele”. (Eso 5:1, 2) Con questo Faraone voleva evidentemente dire che non riconosceva Geova come il vero Dio, avente autorità sul re d’Egitto e su ciò che lo riguardava o avente il potere di far rispettare la Sua volontà com’era stato annunciato da Mosè e Aaronne. Ma ora Faraone e tutto l’Egitto, insieme agli israeliti, avrebbero imparato a conoscere il vero significato di quel nome, la persona che esso rappresentava. Come Geova spiegò a Mosè, questo sarebbe stato il risultato del fatto che Dio avrebbe adempiuto il suo proposito liberando gli israeliti e dando loro la Terra Promessa, e adempiendo così il patto stipulato con i loro antenati. In questo senso Dio disse: “Certamente conoscerete che io sono Geova vostro Dio”. — Eso 6:4-8; vedi ONNIPOTENTE.

L’ebraicista D. H. Weir giustamente dice che quanti sostengono che il nome Geova fu rivelato per la prima volta in Esodo 6:2, 3 “non hanno studiato [questi versetti] alla luce di altri passi biblici; altrimenti si sarebbero accorti che qui per nome si deve intendere non le due sillabe che compongono il nome Geova, ma l’idea che questo nome esprime. Quando leggiamo in Isaia, cap. lii. 6, ‘Perciò il mio popolo conoscerà il mio nome’; o in Geremia, cap. xvi. 21, ‘Conosceranno che il mio nome è Geova’; o nei Salmi, Sl. ix. [10, 16], ‘Quelli che conoscono il tuo nome confideranno in te’; capiamo immediatamente che conoscere il nome di Geova è una cosa ben diversa dal conoscere le quattro lettere di cui è composto. Significa conoscere per esperienza che Geova è veramente quello che il suo nome afferma che sia. (Cfr. anche Is. xix. 20, 21; Ez. xx. 5, 9; xxxix. 6, 7; Sl. lxxxiii. [18]; lxxxix. [16]; 2Cr. vi. 33)”. — The Imperial Bible-Dictionary, cit., vol. I, pp. 856, 857.





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