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L'ALBERO DELLE PENTOLE

Ultimo Aggiornamento: 17/01/2007 09:19
17/01/2007 08:43
 
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L’ALBERO DELLE PENTOLE



Alcuni giorni fa ne ho parlato ad un amico fraterno, egli stupito mi ha detto che gli “alberi delle pentole” non esistono. Vi sembrerà strano ma io li ho visti, anzi li ho anche fotografati.

Nella zona di Mara e per precisione a Desesti, in Alta Transilvania, in Romania esistono gli unici 3 alberi delle pentole. Immaginate lo stupore provato, trovandomi di fronte a quelle immagini. Ricordo che un mio caro amico e collaboratore, Ivan Florian Nicolae, un gigante di 150 chili, nato in Romania, da padre russo e madre ungherese mi stava portando a Spinta, a visitare il “Cimiterul Vesel” (Cimitero allegro), unico al mondo. E’ l’unico cimitero in cui il sorriso accompagna la visita di quel luogo unico. In un prossimo futuro scriverò del Cimitero Allegro, ma ritorniamo a Desesti.

Desesti è un piccolo ed antichissimo villaggio che ritrova a metà strada tra Baia Mare e Sighet Marmatiei, a pochi metri dall’Ucraina. In quella zona, chiamata Mara, dal nome del villaggio più grande, appunto, ogni villaggio è simile all’altro. Sui due lati della strada principale si affacciano le casette tipiche, in legno, costruite con maestria dagli stessi abitanti, che da generazione costruiscono queste “dacia” in legno, per alcune nazioni dell’ex Unione Sovietica, per gli U.S.A. ed anche per alcune nazioni europee.
La falegnameria è un’arte che si tramanda da padre in figlio, perché la zona è circondata da rigogliose foreste. Davanti ad ogni casetta c’è la “Porta del Maramures”, tipica porta in legno massiccio, completamente intagliata a mano, ove la simbologia religiosa si alterna a quella pagana, degli antichi Daci. Ogni porta è unica, non si possono fare due porte uguali.

L’artigiano, che continua a costruire queste porte, l’ho incontrato a casa sua. Egli ha una famiglia felice: moglie, due figli sposati, uno prete ortodosso, l’altro ingegnere.
Entrambi hanno imparato ad intagliare le famose porte, affinché queste tradizione e cultura non si perdano. Inoltre le famose “Bisericute” (tipiche chiesette in legno costruite senza chiodi), sono ancora oggi costruite da questo vecchio artigiano, fiero di essere l’ultimo dei Daci.
Ebbene, in queste zone ci sono gli alberi delle pentole. Ivan raccontava a ruota libera, vita morte e miracoli di quei villaggi. Il motivo per il quale, i costumi tradizionali, indossati dai giovani solo la domenica, dagli adulti tutti i giorni della settimana, erano di colore diverso.
Il significato dei disegni, dei simboli sulle porte ed infine mi fece fermare l’auto, di fronte alla casa dell’albero delle pentole.

Con dolcezza iniziò a raccontarmi che, ancora oggi, si ripete la tradizione, secondo la quale, chi ha delle figlie femmine, in età da marito, deve “pubblicizzare” questa notizia, affinché i giovani possano aspirare a prendere in moglie quelle fanciulle.
Ivan poneva l’accento sulla bontà e sull’ospitalità degli abitanti della zona di Mara e, per dimostrarmelo, mi fece scendere dall’auto, attraversammo la strada e ad alta voce chiamò qualcuno, per attirarne l’attenzione.
Si affacciò all’uscio una signora di mezza età, nel tipico vestito tradizionale, la quale sorridendo ci invitò ad entrare. Rimasi esterrefatto, quella donna invitava ad entrare due emeriti sconosciuti, con la semplicità che contraddistingue i “puri di spirito”.

Entrammo in questa casa, arredata secondo l’antica tradizione dei Daci, con tappeti di lana di pecora tessuti a mano, con disegni di colore rosso e bianco. Tutto l’arredamento era di legno massiccio pregiato, caldo, forte, stabile. Il pavimento era completamente ricoperto da pregevoli tappeti, tessuti da loro e che si tramandavano da madre in figlia. Alle pareti icone di Santa Parascheva (la Santa Rita da Cascia), a cui tutta la Romania è devota, il Cristo e, su di una panca, le foto ed i ritratti dei familiari defunti, confortati da una candelina.

Dietro la casa c’è un pezzo di orto, per coltivare le verdure, in un’altra area tutti gli animali da cortile, i maiali nella porcilaia, due mucche con un vitello nella stalla, di fianco due cavalli poderosi, che lavorano duramente nel tirare i carri, carichi di tronchi, che dovranno essere trasformati. In un angolo del giardino delle croci, sono quelle dei familiari defunti, che la tradizione vuole siano sepolti “in casa”, perché essi continuano a fare parte della famiglia, anche da morti. Essi non sono dimenticati come i nostri defunti, ma ogni giorno ricevono una visita, una preghiera, dei fiori, un lumino. Le anziane si soffermano a parlare con i loro defunti, come se fossero presenti fisicamente e come tipicamente si fa “filò” nelle stalle, l’inverno, al caldo.
Dopo pochi minuti arrivò anche il marito, che era nella stalla, a preparare la “Brnza”, tipico formaggio fresco dell’ex Unione Sovietica, che ogni contadino produce, con l’eccesso di latte fresco invenduto.

Questo formaggio è l’ingrediente principale di molti piatti tipici, somiglia un po’ al “primo sale” italiano; è solo molto più saporito, perché il latte appena munto viene lavorato così com’è. In quelle zone montane, si ingeriscono molti cibi grassi, per avere le energie necessarie ad affrontare giornate di durissimo lavoro, che durano dall’alba al tramonto. A quell’altitudine, circa 800 metri slm. cade circa un metro e mezzo di neve. Le temperature possono arrivare a -30°. L’inverno ci si sposta con la “Sania” tipica slitta tirata da due possenti cavalli, perché le poche e vecchie auto Dacia, hanno difficoltà a procedere. In quei luoghi non hanno problemi di diabete o di malattie cardiache. Se non ingerissero cibi molto grassi, morirebbero in breve tempo. La zona di Mara è famosa anche per le bufale. Ogni famiglia ne possiede un certo numero, in funzione ai bisogni alimentari della famiglia ed all’attività commerciale svolta.

Ritorniamo a bomba nel salotto di quella casa. Io mi presentai alla signora, come vuole la tradizione, inchinandomi e baciandole la mano destra dicendole “Seram?nâ”, tipico saluto di rispetto, dovuto alle donne sposate ed agli anziani.
Lei presentò il marito, un uomo dal volto scolpito nella roccia. La sua mano potente si impossesso della mia, che scomparve in quella “morsa umana”.
Ci fecero accomodare sul divano, rigorosamente in legno, con imbottitura in lana di pecora, ricoperto da un tessuto di lana grezzo e coloratissimo.

L’uomo impartì un comando alla moglie, che chiese il permesso di congedarsi, mi alzai per rispetto, lei si voltò e si incamminò verso la “bucateria” (la cucina).
Ivan mi chiese il permesso di esprimersi in lingua romena, con il padrone di casa, dato che l’uomo non conosceva altra lingua; non essendosi mai allontanato dalle sue zone.
“Ivan il Terribile” gesticolava animatamente, le parole uscivano velocemente dalla sua bocca, molte delle quali risultavano a me incomprensibili. Egli tesseva le lodi della storia e tradizione di Mara, si complimentava della casa bellissima e chiese più volte di confermarmi quale grande senso dell’ospitalità c’è, ancora oggi, nelle zone di Mara. L’uomo ere fortemente concentrato, gli occhi brillavano dalla contentezza e dall’orgoglio di essere stato scelto, per questa visita a sorpresa.

Il labbro inferiore tremava leggermente, mentre, per l’emozione, fu costretto ad accendere una tipica “sigaretta contadina” Carpati, corta, tozza e senza filtro. L’uomo ne offrì una a me, io per non contrariarlo l’accettai con un po’ di timore, la poggiai tra le labbra, avvicinai il fiammifero acceso ed aspirai la prima boccata. Ingoiai la prima boccata di fumo, che si blocco in gola. I polmoni si compressero, per non accettare quel veleno micidiale. Gli occhi si iniettarono di sangue, il corpo voleva che tossissi pesantemente, per espellere quel fumo venefico. L’uomo rideva di gusto, mostrando con naturalezza i pochi denti ingialliti rimasti, nonostante fosse più giovane di me. Mentre rideva l’uomo portò la “Marlborina” (viene anche chiamata così, per fare il verso alla nota sigaretta americana) alla bocca e, ridendo, aspirò una profonda boccata.

Deglutì il fumo con la facilità, con la quale un alpinista inspira aria fresca e pura in montagna. Rimasi a bocca aperta nel vedere che non rimase soffocato, dal quel micidiale veleno mortale. Le dita callose e deformate, dal duro lavoro manuale, tenevano saldamente la tozza sigaretta arroventata, quasi si fosse incollata.
Ivan, non fumatore, continuava a parlare, convinto che lo ascoltassimo, ma io ed il corpulento contadino ci stavamo confrontando a distanza. Due modelli di uomo, con due culture diverse, si erano trovati, alla fine del mondo, ed ognuno di noi scrutava l’altro, per comprenderne i punti di debolezza. Io non mi lasciai intimorire, nonostante i miei 3 bypass, il mio diabete galoppante, l’ipertensione, lo stress che mi divorava l’anima ed il corpo. Davide non poteva usare la forza, per sconfiggere Golia.

Fu così che iniziai ad usare l’astuzia. Intanto rientrò la moglie, con un vassoio pieno di bottiglie senza etichetta. Al seguito due ragazze, i due bellissimi motivi, per i quali vi erano molte pentole colorate sull’albero. Ognuna di essa portava in equilibrio una serie di piatti, con dentro i tipici prodotti, comuni in molte nazioni dell’ex Unione Sovietica: “sarmale, gratar, brunza, sciunca, castravez, ciuperci, ciorba e 10 tipi di palinca, tipica grappa di frutta, fatta di mele, di prugne, di mirtilli, o di frutta mista. In tutto il Maramures, ogni famiglia produce circa 100 lt. di palinca, per il consumo personale nell’anno.
Mio Dio! Pensai, non ne esco vivo!

La donna si rivolse prima a me, ospite d’onore, invitandomi a mangiare e bere, l’uomo la interruppe, mentre espirava come una vaporiera, l’ennesima boccata di marlborina. Io la facevo consumare lentamente nella “scrumiera” il posacenere.
L’uomo tuonò che la tradizione di Mara impone di dare il benvenuto al forestiero, bevendo tre bicchierini di 50 cc. tutto d’un fiato ed uno dietro l’altro. Io rimasi ammutolito, pietrificato da quelle affermazioni. L’uomo allineò nove bicchierini uguali, tre per ciascuno degli uomini, afferrò per il collo la prima bottiglia ed iniziò a riempirli uno dopo l’altro. Ero disperato, avrei voluto fuggire lontano. Le due giovani donne, in costume tradizionale, mi guardavano sorridendo e divertite da quella scena, alla quale non riuscivo a sottrarmi.

L’uomo era la massimo della euforia, la moglie seduta composta, osservava in religioso silenzio. Ivan continuava a parlare, ma io non riuscivo più a seguirlo, ero concentrato sulla fine che da li a poco avrei fatto.
Una delle figlie, approfittando della distrazione del padre, mossa da compassione, si avvicinò e mi disse di accompagnare ogni sorso di palinca con un sorso di acqua o di succo di “Cappy”, un’aranciata non gassata, prodotta in Romania dalla Coca Cola, in confezione da due e cinque litri, dal costo irrisorio.

Io la fissai con gli occhi pieni di gratitudine del condannato a morte, che viene salvato, poco prima dell’esecuzione, da una “Fatina buona”.
Mangiammo molto, bevemmo di più, fumammo più di Phoenix (la fonderia di rame elettrolitico, con una ciminiera alta 472 metri ed un diametro colossale). Paradossalmente rimasi lucido, i consigli della Fatina buona mi avevano salvato veramente.
L’uomo iniziò a parlare dell’albero delle pentole. La sua origine non la ricorda, egli afferma che è sempre stato lì, da sempre. Su ogni ramo viene appesa una pentola smaltata e colorata. Se l’albero ha molte pentole significa che le figlie, da sposare, sono di famiglia benestante, perché hanno molte pentole e quindi porteranno una ricca dote. Inoltre tutte queste pentole indicano che le signorine nubili sono state formate non solo culturalmente nelle università romene, ma hanno grande dimestichezza nel gestire la casa, il marito, i figli (a Dio piacendo), gli animali e le attività agricole.
Vasilica, la padrona di casa, discorreva affabilmente con me, raccontandomi storie che sembravano delle favole, sia per i contenuti che per la dolcezza con la quale le raccontava. Il marito, Ghiorghita, parlava animatamente con Ivan, anch’egli paonazzo in volto.

Le signorine mi osservavano in silenzio, provocandomi un leggero imbarazzo.
Stavo bene in quella casa, mi sentivo a casa mia, mi sentivo bene. Mi è sembrato di tornare a casa dopo molti anni ed aver ritrovato il fratello, la cognata e le nipoti.
Ero commosso dalla generosità, dalla semplicità con la quale sono entrati nella mia vita, dall’affetto fraterno dimostrato.
Prima di congedarmi ho promesso loro che avrei scritto una favola su di loro, sulla loro casa e sull’atmosfera magica che si vive, visitando la zona di Mara.
La favola l’ho scritta, non è questa, questa è la realtà descritta. La favola che ho scritto non l’ho mai consegnata, nonostante sia andato diverse volte, nell’ultimo anno, in Romania, con cinque copie stampate ed autografate. Evidentemente non è ancora arrivato il momento di incontrarli, non è ancora arrivato il momento di dire loro grazie, per la lezione di vita che mi hanno dato.
Gianfranco
17/01/2007 09:19
 
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Ogni volta che leggo questi tuoi racconti, comincio a sognare, a vedere luoghi in cui non sono mai stata, hai il dono di stimolare l'immaginazione in chi legge.
Buon giorno a te
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