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non credono nell'inferno!

Ultimo Aggiornamento: 17/06/2008 09:49
03/12/2006 04:51
 
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Per uscire dall'empasse devi considerare nel suo pieno significato il concetto di Libero Arbitrio. Se l'uomo è libero di non scegliere Dio, se vuole, e Dio ha deciso di rispettare questa sua libertà, anche perché (sempre che valga il principio di non contraddizione) qualora Dio non rispettasse tale libertà annienterebbe quell'ente (l'uomo) a cui questa appartiene per essenza (l’uomo fatto a immagine e somiglianza di Dio), allora più che cercare di farlo giungere a Lui, Dio non può fare altro per l’uomo.
La scelta dell’uomo deve essere una scelta d’amore, una scelta libera. Dio non è insensibile alle sofferenze delle sue creature, Dio vuole che tutti si salvino, ma se alcune sue creature non vogliono la salvezza, Dio (appunto perché le ama) non le annienta (questo succederebbe se Egli non rispettasse questa loro volontà di starsene da Lui lontane): si limita a lasciarle lì dove loro stesse hanno scelto di essere. Il fatto che la condizione dei dannati sia angosciosa non toglie che sono i dannati stessi che, accanendosi nel loro rifiuto di Dio, preferiscono, per così dire, la loro angoscia alla beatitudine divina. I dannati non sono disposti ad accettare la loro insufficienza, non sono disposti ad accettare Dio e, pertanto, rimangono nella loro insufficienza, rimangono senza Dio.
Ti lascio queste “brevi” riflessioni di S. Tommaso d’Aquino su cui meditare:


Se dalla divina giustizia sia inflitta ai peccatori una pena eterna

(4 Sent., d. 46, q. 1, a. 3)

SEMBRA che dalla divina giustizia non venga inflitta ai peccatori una pena eterna. Infatti:
1. La pena non deve superare la colpa: poiché sta scritto: "Secondo la gravità del delitto sarà la misura del castigo". Ma la colpa è temporanea. Dunque la pena non deve essere eterna.
2. Di due peccati mortali l'uno è più grave dell'altro. Quindi l'uno deve essere punito con una pena maggiore dell'altro. Ma nessuna pena può essere maggiore della pena eterna, essendo questa infinita. Dunque la pena eterna non è dovuta per tutti i peccati mortali. Ma se a uno di essi non è dovuta, non è dovuta a nessuno: perché la distanza tra loro non può essere infinita.
3. Un giudice giusto non infligge delle pene che per correggere: poiché, come nota Aristotele, "i castighi sono delle medicine". Ma punire i reprobi per l'eternità non serve alla loro correzione: e neppure serve alla correzione di altri, perché allora non ci saranno più dei soggetti capaci di correggersi per questo. Perciò la divina giustizia per i peccati non può infliggere una pena eterna.
4. Ciò che non è desiderato per se stesso, nessuno lo vuole, se non per qualche utilità. Ora, le punizioni non sono volute da Dio per se stesse: poiché egli non gode dei castighi. Siccome quindi non può ricavarsi nessuna utilità dalla perpetuità delle pene, è chiaro che per il peccato non viene inflitta una pena perpetua.
5. Come dice il Filosofo, niente di ciò che è per accidens può essere perpetuo. Ma il castigo è tra le cose per accidens, essendo contro natura. Dunque non può essere perpetuo.
6. La giustizia di Dio sembra esigere che i peccatori vengano annichilati. Infatti per l'ingratitudine uno merita di perdere i benefici ricevuti. Ora, tra gli altri benefici di Dio c'è anche l'esistenza. Perciò sembra giusto che il peccatore, per l'ingratitudine verso Dio, perda la stessa esistenza. Ma se egli viene annichilato la pena non può essere perpetua. Quindi non sembra consono alla divina giustizia che i peccatori vengano puniti per l'eternità.
IN CONTRARIO: 1. Nel Vangelo si legge: "Andranno costoro", cioè i peccatori, "all'eterno supplizio".
2. Come il premio sta al merito, così il castigo sta alla colpa. Ora, secondo la divina giustizia a un merito temporale è dovuto un premio eterno: "Chiunque vede il Figlio di Dio e crede in lui avrà la vita eterna". Dunque secondo la divina giustizia per una colpa temporale è dovuta una pena eterna.
3. Come nota il Filosofo, la pena va determinata in base alla dignità della persona contro la quale si pecca: cosicché viene punito con una pena più grave chi dà uno schiaffo al sovrano, che chi schiaffeggia un privato qualsiasi. Ma chi pecca mortalmente pecca contro Dio, di cui trasgredisce i comandamenti, e dà ad altri l'onore a lui dovuto, mettendo il proprio fine in altre cose. Ora, la maestà di Dio è infinita. Perciò chi pecca mortalmente è degno d'una pena infinita. Quindi è giusto che per il peccato mortale uno venga punito in perpetuo.
RISPONDO: Poiché la pena ha due dimensioni, cioè intensità del dolore e durata, la gravità della pena corrisponde alla gravità della colpa sotto l'aspetto dell'intensità del dolore, cosicché in base alla maggiore gravità del suo peccato uno deve ricevere un castigo più doloroso, secondo le parole dell'Apocalisse: "Quanto si è gloriata e ha lussureggiato, tanto datele di tormento e di lutto". Ma la durata della pena non corrisponde alla durata della colpa, come nota S. Agostino: infatti l'adulterio che viene perpetrato in un momento anche secondo le leggi umane non viene punito con una pena momentanea. Ma la durata della pena si riferisce alla disposizione di chi pecca. Chi pecca, p. es., in una data città, o stato, per ciò stesso talora diventa degno di essere eliminato del tutto da quella comunità, o con l'esilio perpetuo, oppure con la morte. Talora invece non diventa degno di essere escluso del tutto dal consorzio civile: e per renderlo un membro adatto della collettività gli viene inflitta una pena più lunga o più breve secondo che richiede la sua guarigione, in modo che impari a vivere nel consorzio civile in maniera conveniente e pacifica.
Ebbene, anche secondo la divina giustizia uno per il peccato può rendersi degno di essere del tutto separato dalla città di Dio: e ciò avviene per ogni peccato in cui uno pecca contro la carità, la quale è il vincolo che tiene unita la città suddetta. Perciò per il peccato mortale, che è contrario alla carità, uno viene escluso in eterno dalla società dei santi, e condannato alla pena eterna: poiché, come nota ancora S. Agostino, "quello che per gli uomini nella città dei mortali è il supplizio della prima morte, nella città immortale è il supplizio della seconda morte". Il fatto che la pena inflitta dalla città terrestre non viene considerata perpetua è solo per accidens, sia perché l'uomo qui non dura in perpetuo, sia perché la città stessa ha un termine. Ma se un uomo vivesse in perpetuo, la pena dell'esilio o della schiavitù, inflitte dalla legge umana: resterebbero in lui in perpetuo. - Per coloro invece che non peccano in modo così grave da esser degni della totale separazione dalla città dei santi, p. es., quelli che fanno peccati veniali, la pena sarà più breve o più lunga secondo la necessità della loro purificazione, in base al loro attaccamento al peccato. E questo criterio è seguito dalla divina giustizia per le pene di questo mondo e per quelle del purgatorio.
I santi portano anche altre ragioni per mostrare che giustamente per una colpa temporale si può essere puniti con una pena eterna. La prima è il fatto che i dannati hanno peccato contro un bene eterno, disprezzando la vita eterna. Vi accenna in questi termini lo stesso S. Agostino: "Si è reso degno di un male eterno colui che distrusse in se stesso un bene che avrebbe dovuto essere eterno".
La seconda sta nel fatto che l'uomo ha peccato con un atto che in lui è eterno. Di qui le parole di S. Gregorio: "Spetta alla grande giustizia del giudice che non cessi mai il supplizio a coloro che mai han voluto cessare il peccato". - Se poi uno replicasse che alcuni nel peccare mortalmente hanno il proposito di convertirsi, e quindi per questo non sembrano degni di un castigo eterno, - si deve rispondere, secondo alcuni, che S. Gregorio parla del volere che si manifesta nelle azioni. Chi infatti cade in peccato di propria volontà, si pone in uno stato dal quale non può essere risollevato che dall'intervento di Dio. Perciò per il fatto che vuol peccare, vuol rimanere perpetuamente in peccato: l'uomo infatti è "uno spirito che va" verso il peccato "e non ritorna" da se stesso. Se uno infatti si gettasse in una fossa dalla quale non può uscire senza essere aiutato, si potrebbe dire che vuole rimaner là in eterno, per quanto egli pensi diversamente. - Oppure si può rispondere, che per il fatto stesso di peccare mortalmente uno mette il proprio fine in una creatura. E poiché tutta la vita è ordinata al fine, così facendo ordina tutta la propria vita a quel peccato; e vorrebbe restare in perpetuo in tale colpa, se potesse farlo impunemente. Ecco perché S. Gregorio, a commento di quel passo di Giobbe, "Crederebbe che l'abisso sia invecchiato", scrive: "Gli iniqui hanno peccato fino a un dato termine, perché la loro vita ha avuto termine. Ma essi avrebbero voluto vivere senza fine per poter rimanere senza fine nelle loro iniquità: bramano infatti più di peccare che di vivere".
Si può addurre una terza ragione a favore dell'eternità della pena per il peccato mortale, nel fatto che in codesta colpa si pecca contro Dio che è infinito. Perciò, non potendo la pena essere infinita in intensità, perché la creatura non è capace di una grandezza infinita, non rimane altro se non che essa sia infinita per la durata.
C'è poi una quarta ragione nel fatto che la colpa medesima rimane in eterno, non potendo infatti essere rimessa che con la grazia, che l'uomo non può ricuperare dopo la morte. E d'altra parte la pena non deve cessare fino a che rimane la colpa.
SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. La pena deve essere uguale alla colpa, ma non nella durata: com'è evidente anche secondo le leggi umane.
Oppure si può rispondere con S. Gregorio che la colpa, pur essendo temporanea nell'atto, è però eterna nella volontà.
2. Alla gravità del peccato corrisponde la gravità della pena secondo l'intensità. Perciò per dei peccati mortali di gravità differente, ci saranno dei castighi di differente intensità, ma uguali quanto alla durata.
3. I castighi inflitti a coloro che non vengono del tutto eliminati dalla collettività sono ordinati alla loro correzione; ma quelli che li sterminano totalmente dal consorzio civile non sono ordinati alla loro correzione. Tuttavia possono servire alla correzione e alla tranquillità di coloro che rimangono. Perciò anche la dannazione eterna dei reprobi serve alla correzione di coloro che attualmente fanno parte della Chiesa: poiché i castighi servono a correggere non solo col fatto di essere inflitti, ma anche con la loro comminazione.
4. Le pene dei reprobi che dureranno in eterno non saranno davvero del tutto inutili. Infatti esse servono a due cose. Primo, a mantenere la divina giustizia: la quale piace a Dio per se stessa. Di qui le parole di S. Gregorio: "Dio onnipotente perché pio non gode delle sofferenze dei miseri. Ma perché giusto non cesserà in eterno dalla vendetta sui perversi".
Secondo, codeste pene servono al godimento degli eletti, in quanto costoro contemplano in esse la giustizia di Dio, e insieme riconoscono di averle scampate. Di qui le parole dei Salmi: "Il giusto si rallegrerà nel vedere la vendetta"; e quelle di Isaia: "Gli empi esisteranno fino a saziare la vista", la vista "dei santi", come spiega la Glossa. L'identico concetto è così espresso da S. Gregorio: "Tutti i perversi, condannati all'eterno supplizio, sono puniti per la loro iniquità: e tuttavia essi bruceranno per uno scopo, cioè perché i giusti, mentre vedono in Dio la felicità raggiunta, vedano in quelli i supplizi da cui essi sono scampati; cosicché tanto più si sentiranno debitori verso la divina grazia, quanto più vedranno punite eternamente quelle iniquità che essi hanno superato con l'aiuto di Dio".
5. Sebbene il castigo abbia con l'anima una relazione per accidens, tuttavia con l'anima infetta dalla colpa ha una relazione per se. E poiché la colpa rimane in essa in perpetuo, anche la pena dovrà essere perpetua.
6. Il castigo corrisponde alla colpa, propriamente parlando, secondo il disordine che si riscontra in quest'ultima, non già secondo la dignità della persona offesa: perché allora a qualsiasi peccato corrisponderebbe una pena intensivamente infinita. Perciò sebbene per il fatto che uno pecca contro Dio, autore dell'essere, meriti di perdere la stessa esistenza; tuttavia, considerato il disordine intrinseco dell'atto, non è giusto che perda l'esistenza: perché l'esistenza è il presupposto sia del merito che del demerito, e d'altra parte essa non viene distrutta o compromessa dal disordine del peccato. Perciò la privazione dell'esistenza non può essere la pena dovuta a una colpa.


[Modificato da Trianello 03/12/2006 4.57]


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Deus non deserit si non deseratur
Augustinus Hipponensis (De nat. et gr. 26, 29)

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