00 18/08/2008 11:39
Agharti64 ha scritto:

L'israelita che era soggetto alla Legge, agiva in armonia con essa perchè "obbligato" dalle regole e dal timore dell'eventuale punizione, oppure ubbidiva perchè pensava che fosse giusto farlo? In altri termini, seguiva la coscienza della Legge (dei sacerdoti e dei giudici che erano predisposti a farla osservare) o la propria, personale, coscienza?

Un genitore che portava davanti agli anziani un figlio ribele, ubriacone e ghiottone (Deut. 21:18-21) sapendo che poteva finire lapidato, lo faceva perchè lo diceva la sua religione o perchè lo diceva la sua coscienza? E una donna che rimaneva vedova senza figli e doveva farsi mettere incinta dal fratello del marito defunto, perchè ubbidiva? E un/una giovane che non poteva frequentare né sposare altri giovani che non fossero israeliti, seguiva la propria coscienza, o quella di chi?

Senza entrare nel merito della concreta e reale applicazione di queste norme "legali", osservo solo che in tutti i casi menzionati si parla appunto di leggi specifiche, di norme chiaramente definite, nelle quali agli israeliti era imposto di seguire un determinato comportamento. La coscienza qui non c'entrava, si parla appunto di Legge. Certamente a nessuno, limitandosi a seguire la voce della coscienza, sarebbe mai venuto in mente di fare certe cose dettate dalla Legge.

E una persona delle nazioni che, come dice Paolo, "per natura" facevano le cose della Legge perchè spinti dalla coscienza, come credi considerassero queste, come anche altre, norme seguite dagli israeliti? Non è che ai loro occhi gli israeliti ci facevano un po' la figura dei "condizionati mentali"?

No, facevano la figura di persone che seguivano un minuzioso codice legale di comportamento. Ma si trattava appunto di un codice scritto, in cui erano esposte circa 600 norme che secondo la Tradizione ebraica sarebbero state provvedute direttamente da Dio al Sinai.

Quando Paolo fa il ragionamento contenuto in Romani non sta certo dicendo che le persone delle nazioni facevano TUTTO ciò che diceva la Legge.

E' ovvio, Paolo parla della coscienza umana e non della Legge nel suo insieme. Paolo dice che ci sono molte cose che gli uomini fanno e avvertono essere intimamente giuste o ingiuste seguendo per natura "la Legge", come il fatto che rubare, uccidere, tradire il coniuge, mentire, ecc, sia essenzialmente sbagliato. E la "coscienza umana" - di ogni tempo e cultura - ritiene essere assolutamente inaccettabile e sbagliato che si lasci morire un bambino che potrebbe essere salvato solo con un trasfusione di sangue.

L'israelita invece, che per nascita era soggetto alla Legge, non aveva scelta, DOVEVA ubbidire. Che lo facesse obbligato da delle norme o dalla propria coscienza era una questione tra lui e Dio. Ma se effettivamente lo faceva con coscienza, che problema c'era? Era un fanatico? Un bigotto? Un condizionato mentale? Oppure gli insegnamenti della propria religione coincidevano (in effetti dovevano coincidere) con la propria coscienza?

Può darsi che in certi casi coscienza e religione coincidessero.
Come ho detto sopra, non sempre comunque questo accade.
Stiamo parlando però di quello che era imposto agli Ebrei dalla Legge e non di ciò che viene richiesto ai Cristiani.

Non è mai esistita nessuna legge in cui si dicesse di lasciar morire un bambino piuttosto che salvarlo con una trasfusione di sangue. Questa è una "legge" inventata da Brooklyn e non da Dio.
Ma anche la stessa Legge di Mosè, nel caso fosse stata messa in pericolo la vita di una persona, non doveva essere seguita fanaticamente al punto di causare la perdita di tale vita.
Per esempio, il comandamento sul Sabato, riportato nel Decalogo, non richiedeva un’assoluta astinenza da qualsiasi "lavoro" - queste erano le interpretazioni legalistiche dei Farisei -, ma si doveva agire secondo lo spirito di tale legge, che era stata data per il bene dell’uomo, come ogni altro comandamento di Dio (cfr. Marco 2: 27,28).

Si poteva quindi salvare una vita in giorno di Sabato, se questo avesse dovuto comportare un lavoro? Secondo i Farisei sì: in tale giorno era consentito tirare fuori da un pozzo una pecora, un toro od una persona che vi fossero caduti. Eppure questo avrebbe davvero significato, secondo la lettera della legge, compiere un faticoso lavoro - immaginate la fatica e le persone necessarie per sollevare un toro! -, mentre la Legge imponeva di non fare "nessun lavoro" durante il sabato (Esodo 20:10). L’interpretazione farisaica, ben attestata fin dall’epoca maccabaica (cfr. 1 Mac. 2:39-41), stabiliva chiaramente che, ogni qualvolta fosse in pericolo, la vita doveva avere la precedenza sul sabato (Joma’ VIII, 6). È interessante anche notare che un’altra corrente del giudaismo contemporaneo a Gesù, quella degli esseni, non ammetteva neppure che si salvassero delle vite di sabato: «Ogni uomo vivo che di sabato cade in un buco pieno d’acqua o in qualche altro posto, non si può farlo risalire con una scala, con una corda o un altro oggetto» (Documento di Damasco XI, 16 ss.).
In Luca 14:5 tuttavia si legge: «Chi di voi, se suo figlio o il toro cade in un pozzo, non lo tira immediatamente fuori in giorno di sabato?» Nessuno obiettò alla domanda di Gesù in merito all’opportunità di agire in questo modo, evidentemente perché questa era la prassi comunemente seguita, anche da coloro che accettavano le rigide ed estremistiche interpretazioni farisaiche (più moderate comunque di quelle degli esseni). Si trattava di salvare la vita di una persona o di un animale (cfr.Deut.22:4).
Nel caso di un animale o di una persona in pericolo di vita, nemmeno questi intransigenti "interpreti" della Legge avevano qualcosa da ridire se si agiva per salvarli, anche se questo avesse significato lavorare (nel pieno senso del termine) di sabato, violando quindi la lettera del comandamento.
È evidente che lo stesso modo di comportarsi va seguito nel caso del sangue. Come abbiamo detto più volte, il comando di non mangiare sangue serviva ad inculcare il rispetto per la vita. È quindi del tutto contrario allo spirito di tale comando "astenersi dal sangue" fino al punto da rinunciare alla vita, la realtà da esso simboleggiata! Un esempio: l’anello matrimoniale è un simbolo del matrimonio; sarebbe ragionevole avere per tale simbolo un rispetto tale che, messi di fronte alla scelta tra il sacrificare la vera nuziale e la propria moglie, si avesse un rispetto tale per l’anello al punto da preferirlo al coniuge? (Esempio tratto dal libro Alla ricerca della libertà cristiana, di R. Franz, ex membro del CD, p. 386, nota 23).

Saluti
Achille
[Modificato da Achille Lorenzi 18/08/2008 11:41]