Trasfusione rifiutata dal paziente: quando il medico può praticarla senza commettere illecito

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brunodb2
00martedì 6 marzo 2007 13:38
Trasfusione rifiutata dal paziente: quando il medico può praticarla senza commettere illecito

di
Maria Rosaria San Giorgio*

Il rifiuto del trattamento trasfusionale esternato dal paziente determina la illiceità del comportamento del sanitario che vi proceda solo se inequivoco, attuale, effettivo e consapevole. Questo il principio di diritto desumibile dalla recente sentenza 4211 del 2007 (qui leggibile nei documenti correlati), con la quale la terza sezione civile della Cassazione affronta il tema, purtroppo tristemente noto alla cronaca, del dissenso alle trasfusioni di sangue imposto da motivi religiosi alla comunità dei Testimoni di Geova, e, più in generale, del rifiuto dei trattamenti terapeutici.
Appare opportuno sgombrare subito il campo da un equivoco: la questione sottoposta all'esame della Corte suprema, come, del resto, la stessa sentenza non manca di sottolineare, non richiedeva la soluzione del problema, di scottante attualità non solo in Italia, della legittimità o meno del diritto di rifiutare le emotrasfusioni anche se tale dissenso determini con certezza la morte, ma solo di quello, più limitato, della liceità del comportamento del sanitario che le abbia praticate, pur in presenza di detto rifiuto, ragionevolmente ritenuto dallo stesso medico non più operante a seguito dell'evidenziarsi di un quadro clinico di maggiore gravità, tale da far intendere che, ove fosse stato conosciuto dal paziente - il quale non ha potuto esserne informato perché in stato di incoscienza al momento in cui esso si è palesato - lo avrebbe indotto ad accettare il trattamento.
Nella specie, si trattava di un soggetto che, ricoverato in ospedale per una lesione dell'arteria e della vena succlavia, con emorragia in atto a seguito di un incidente stradale, aveva subito esplicitamente manifestato la volontà di non essere sottoposto, in considerazione delle proprie convinzioni religiose di Testimone di Geova, al trattamento medico di cui si tratta. Trasportato il paziente in sala operatoria, nel corso dell'intervento chirurgico le sue condizioni di salute si erano aggravate, per effetto di una lacerazione vascolare che aveva determinato una più vasta emorragia, tale da mettere in percolo la vita del paziente, e da indurre, perciò, i sanitari a praticare la trasfusione. In seguito a tale vicenda, il paziente aveva proposto domanda di risarcimento dei danni morali subiti per essere stato costretto alla trasfusione. La domanda, già rigettata in primo grado, era stata respinta anche in appello, con la decisione confermata dalla Cassazione con la sentenza in commento.
La giurisprudenza di legittimità ha ripetutamente posto in evidenza il carattere di regola volontario dei trattamenti sanitari, ai sensi dell'articolo 13 della Costituzione, che garantisce l'inviolabilità della libertà personale con riferimento anche alla libertà di salvaguardia della propria salute e della propria integrità fisica, dell'articolo 32,comma 2, della Costituzione, a norma del quale nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge, e dall'articolo 33 della legge 833/78, che esclude la possibilità di accertamenti e di trattamenti sanitari contro la volontà del paziente, sottolineando che la validità del consenso è condizionata alla informazione, da parte del professionista al quale è richiesto, sui benefici, sulle modalità in genere, sulla scelta tra diverse modalità operative e sui rischi specifici prevedibili (anche ridotti che possano incidere gravemente sulle condizioni fisiche o sul bene della vita) dell'intervento terapeutico - informazione che deve essere effettiva e corretta (Cassazione, 10104/94, 364/97, 9705/97, 14638/04).
Diverso è il caso in cui il paziente non sia in grado di esprimere il proprio consenso all'intervento.
La Corte di cassazione, già nel 1975 (sentenza 2439, v. anche la successiva Cassazione 1132/76), nel richiamare il dovere professionale del sanitario di informare il paziente dell'intervento che intenda eseguire sul suo corpo, aveva formulato una riserva per le situazioni estreme nelle quali il suo intervento si palesi necessario ed urgente ed il paziente non si trovi neppure in grado di esprimere una cosciente volontà, favorevole o contraria. La successiva Cassazione 92761/94 aveva posto l'accento sul consenso ad un determinato intervento (chirurgico) prestato da un parente, allorché il diretto interessato non sia stato in grado di prestarlo personalmente, che costituisce non già l'esercizio di un diritto o di un potere proprio del congiunto, quanto una facoltà che si esercita in nome e per conto dell'interessato stesso, inabilitato a farlo, con la conseguenza che l'esecuzione dell'intervento senza tale consenso lede pur sempre un diritto del soggetto che vi è sottoposto e non un diritto proprio di chi è chiamato a prestare, in sua vece, il consenso stesso.
La sentenza 4211/07, nell'ottica della maggior salvaguardia possibile della salute dell'individuo in stato di incoscienza, attribuisce, come si è visto, rilievo a quello che è il presunto consenso al trattamento terapeutico.
La necessità del consenso del paziente alle cure sanitarie viene, del resto, meno in presenza di uno stato di necessità effettivo, o anche presunto o putativo, il quale ricorre allorché il medico, senza colpa, abbia ritenuto, in base a circostanze scusabili, l'esistenza d'un pericolo di danno grave alla salute del paziente(v. Cassazione, 12621/1999).
Il comportamento del medico che agisca allo scopo di salvare la vita del paziente è, infatti, coperto dalla scriminante dello stato di necessità di cui all'articolo 54 del codice penale. Al riguardo, anche la legge 145 del 2001 - peraltro ancora priva dei decreti attuativi - di ratifica ed esecuzione della Convenzione per la protezione dei diritti dell'uomo e della dignità dell'essere umano riguardo all'applicazione della biologia e della medicina (la Convenzione di Oviedo, ultimamente richiamata assai di frequente), che, pure, dispone che, in caso di perdita della coscienza da parte del paziente, siano presi in considerazione i desideri precedentemente espressi a proposito di un intervento da parte di un paziente che, al momento dell'intervento, non sia in grado di esprimere la sia volontà, fa salvi gli interventi di urgenza indispensabili.

* Magistrato



CASSAZIONE



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Ciao [SM=x570892]

Bruno

[Modificato da brunodb2 06/03/2007 13.43]

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