Roma, Atene, Gerusalemme e i disabili

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Biceleon
00venerdì 8 febbraio 2008 14:38
Da un intervista al teologo Vito Mancuso:

«Le immagini delle cure che oggi ricevono i bambini handicappati avrebbero suscitato nei greci e nei romani non meno stupore di quanto veder volare un aeroplano. Quando Platone ideò la sua Città Ideale, propose che gli eventuali figli malformati avrebbero dovuto essere rinchiusi in un luogo oscuro e separato, con la chiara intenzione di farli al più presto morire.
Aristotele, dal canto suo, auspicava una legge che proibisse esplicitamente alle famiglie di allevare figli handicappati, legge che, come risulta da Cicerone, era esplicitamente stabilita dal diritto romano nella quarta delle Dodici Tavole.
Stiamo parlando di Atene e Roma, della grande civiltà greco-romana, la prima delle radici dalla quale proveniamo. La seconda radice, altrettanto fondamentale, è Gerusalemme, la religione ebraica. Ma anche qui, per quanto concerne l'handicap, le cose sono ben diverse rispetto alle attenzioni che una parte della società contemporanea riserva ai disabili. «Taci tu, che sei nato tutto nei peccati»: le parole con le quali i teologi ebraici misero a tacere il cieco guarito da Gesù sono l'attestazione precisa della mentalità vigente secondo cui la presenza del dolore era la prova della presenza del peccato. Ogni dolore era visto come necessariamente colpevole.
L'influsso di Atene e Gerusalemme è stato talmente intenso che nei duemila anni di Cristianesimo le cose non sono cambiate. Il Medioevo e l'epoca moderna non conoscono alcuna attenzione per gli handicappati lontanamente paragonabile a quella odierna. Il più delle volte venivano soppressi al momento della nascita (le levatrici avevano precise istruzioni al riguardo) e, se sopravvivevano, era per un'esistenza che non aveva quasi nulla di umano. Forse i più fortunati, dopo tutto, erano quegli infelici che - dall'aspetto particolarmente deforme - venivano esibiti nelle fiere e nelle feste paesane come mostri da ammirare dietro pagamento, come risulta da numerose fonti tra cui un passo dei Saggi di Montaigne.»

Come padre di un bambino disabile, nonostante sia consapevole di certi episodi del passato, queste affermazioni mi hanno lasciato di sasso.

Trianello
00venerdì 8 febbraio 2008 16:22
Nell'antichità bastava che un neonato fosse semplicemente "di troppo" per venire "esposto", vale a dire abbandonato (ed un bambino gracile o deforme era necessariamente "di troppo"). La pratica di abbandonare i neonati è stata praticata in modo assai diffuso fino alle soglie del Novecento, anche se la Chiesa, nel frattempo, era intervenuta istituendo le tanto esecrate (dai ben pensanti) "ruote degli espositi", che contribuirono a salvare la vita a molti di quei neonati che altrimenti sarebbero andati incontro a morte certa (ora sapete anche da dove deriva il cognome "Esposito", tanto diffuso nel napoletano). Il "grande" Rousseau abbandonò tre dei suoi figli presso dei conventi di suore. Così, per ironia della sorte, fu proprio grazie alla da lui tanto esecrata Chiesa che il frutto dei suoi lombi poté forse sopravvivere (non possiamo sapere che fu poi di questi pargoli, ovviamente), e lui continuare a scrivere (senza doversi preoccupare di mantenere la sua famiglia) i suoi meravigliosi testi sulla tolleranza e la pedagogia.
Topsy
00sabato 9 febbraio 2008 17:47
Carissimo, il tuo intervento mi ha colpito. I tuoi pensieri sono anche i nostri. La nostra sensibilità ci impedisce di accettare che un'infermità, una malattia, possano costituire la prova di una qualche colpa attribuibile all'individuo.

Non hai affatto torto quando affermi che questa visione retributiva della sofferenza non è estranea alla cultura biblica, e orientale in genere. Ma, presso le Scritture ebraiche sono rintracciabili a questo riguardo non di rado, resoconti contrastanti, divergenti, mentre, noi sovente ipotizziamo che Il testo e la cultura biblici fossero fissi, univoci e monolitici. Dobbiamo abituarci all' idea che la Bibbia ebraica costituisce piuttosto la cronaca di una lotta di voci alternative che convivono, anche in conflitto tra loro; queste tensioni che la Bibbia ci testimonia all'interno di essa, non sono così diversi dai conflitti culturali che appaiono nei testi dei periodi successivi della storia ebraica.

Perchè Giobbe il giusto, è colpito così ingiustamente? Perché il male colpisce il giusto?
La risposta di Dio è una non-risposta. Dio chiede a Giobbe di uscire dalla mentalità della giusta retribuzione del dolore e al contempo gli dichiara che il male e la sofferenza appartengono all’ordine del mistero. Non sono indagabili. Giobbe non comprende perchè ha sofferto, ma sa che Dio non ha smesso di amarlo. E' così anche in altri brani biblici. Sebbene Ezra aveva affermato che gli ebrei erano stati trovati colpevoli (dissobedienti) per cui Dio li aveva puniti con l'esilio, nel Salmo 44 (considerato più o meno contemporaneo di Qohelet) si ha la diffusa sensazione di essere nell'insieme, in pace di fronte alla Legge di Dio, eppure nonostante ciò la sventura aveva nuovamente colpito Israele; il sangue versato dagli ebrei non è più sangue di colpevoli puniti da Dio, ma sangue innocente (Giole 4,19) Nel Salmo 44 e in Gioele 4, si afferma chiaramente che la sofferenza che subisce Israele non è un castigo; e allora cosa è?!
Si era delineata una concezione diversa della sofferenza destinata a sfociare nella figura tanto cara ad Israele, quello del giusto sofferente. Una concezione che ha continuato a convivere con quella precedente, seppure a noi occidentali, dallo spirto critico e moderno appaiono inconciliabili.

Una cosa tuttavia desideravo accennare, ossia, all'obbligo di proteggere il debole,che deriva dal dovere biblico di amare il prossimo come se stessi. Spetta alla tradizione orale (confluita nel Talmud) individuare quali categorie di persone comprenda il termine "debole"; e la tradizione ebraica salvaguarderà e regolerà la cura e l’interesse dovute al "debole" mediante il ricorso a norme poste a protezione dell’orfano, del povero, della vedova, del malato, dell’anziano e dello straniero, ovvero a tutte le varie categorie sociali incluse nel termine "debole": individui fisicamente o psicologicamente più fragili, ed esposti per questo, a maggiori disagi ed offese.

Shalom!

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