Medico puo' imporre trasfusione

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brunodb2
00venerdì 23 febbraio 2007 20:42
Medico puo' imporre trasfusione

Cassazione: anche a testimoni Geova
Il medico può disporre una trasfusione di sangue che sia indispensabile per impedire la morte del pazienze, anche contro la volontà del paziente espressa quando ancora non in pericolo di vita. Lo ha stabilito la Cassazione, che ha respinto il ricorso di un testimone di Geova che aveva rifiutato una donazione di plasma, praticatagli durante l'intervento per una complicazione che rischiava di farlo morire.
La materia trattata dalla sentenza n. 4211 del 21 febbraio 2007 era delicatissima. E, i giudici, hanno preferito non prendere una posizione ben precisa sul tema del rifiuto alle cure, ma si sono limitati a valutare il comportamento dell'equipe dell'ospedale di Trento che hanno giudicato legittimo e incensurabile.

Tutto era cominciato quindi dalla trasfusione, in seguito alla quale il paziente aveva denunciato i medici e chiesto il risarcimento del danno morale, biologico e patrimoniale. Per l'uomo i dottori avrebbero potuto essere più tempestivi nell'intervenire con altre terapie senza dover necessariamente ricorrere alla trasfusione.

Ma la sua istanza era stata respinta dal tribunale di Trento e dalla corte d'Appello per approdare in Cassazione.

I togati hanno quindi analizzato tutte le circostanze della situazione, in primis il fatto che la trasfusione fosse avvenuta quando il paziente era già sotto anestesia e che., prima di procedere, il chirurgo avesse sentito il parere del procuratore della Repubblica.

Nella sentenza quindi la corte ritiene che l'équipe chirurgica abbia agito in modo irreprensibile. E spiega che qui il concetto di "rifiuto delle cure" non rientra nei casi di accanimento terapeutico, testamento biologico o di suicidio assistito. Qui non si sentenzia sulla legittimità del diritto, da parte dei testimoni di Geova, di rifiutare le trasfusioni di sangue anche se ciò determina la morte, ma di accertare la legittimità del comportamento dei medici che hanno deciso la trasfusione, convinti che il rifiuto iniziale del paziente "non fosse più valido e operante".


Fonte:

www.tgcom.mediaset.it/cronaca/articoli/articolo350398.shtml

Ciao [SM=x570892]

Bruno
brunodb2
00venerdì 23 febbraio 2007 20:56
Stessa notizia viene riportata anche qui:

Fonte:
www.la7.it/news/textnews/dettaglio.asp?id=36045&cat=1


Roma 23/02/2007 16:36
CASSAZIONE: MEDICO PUO' IMPORRE TRASFUSIONE SE SALVA VITA
Roma, 23 feb. (Apcom) - Il medico può disporre una trasfusione di sangue che sia indispensabile per impedire la morte del pazienze, anche se la stessa trasfusione era stata rifiutata dal paziente quando ancora non in pericolo di vita. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 4211 del 21 febbraio 2007, che ha respinto il ricorso di un testimone di Geova che aveva rifiutato, dopo il ricovero, la trasfusione, praticatagli solo più tardi, durante l'intervento, per una sopraggiunta complicazione che rischiava di fargli perdere la vita. I giudici della terza sezione sono intervenuti con grande prudenza su una materia delicatissima. Non hanno preso una posizione ben precisa circa la soluzione del problema "rifiuto alle cure", ma si sono limitati a valutare il comportamento dell'equipe dell'ospedale di Trento che hanno giudicato legittimo e incensurabile. Tanto più che la trasfusione era stata fatta quando il paziente era già sotto anestesia e il chirurgo aveva sentito il Procuratore della Repubblica prima di procedere. L'uomo aveva subito denunciato i medici e chiesto il risarcimento del danno morale, biologico e patrimoniale. La domanda era stata respinta dal Tribunale di Trento. La Corte d'Appello aveva confermato la decisione di primo grado. Ecco allora che la causa è approdata in Cassazione. Secondo il paziente i medici avrebbero potuto essere più tempestivi nell'intervenire con altre terapie senza dover necessariamente ricorrere alla trasfusione. Ma, secondo i giudici di legittimità che hanno sposato le pronunce di merito, le attività dell'equipe medica era stata assolutamente irreprensibile. "La motivazione della Corte d'Appello", ha messo nero su bianco il Collegio, "si fonda su argomenti congrui e logici, non conformi alle credenze della comunità religiosa d'appartenenza del paziente, ma certo aderenti ad un diffuso sentire in questo tempo di così vivo ed ampio dibattito sui problemi esistenziali della vita e della morte, delle terapie e del dolore (si consideri ad esempio che nei vari disegni di legge sul testamento biologico, contenente cioè la anticipate direttive di un soggetto sano con riguardo alle terapie consentite in caso si trovi in stato di incoscienza, spesso è previsto che tali prescrizioni non siano vincolanti per il medico, che può decidere di non rispettarle motivando le sue ragioni nella cartella clinica). Insomma - spiegano i giudici del Palazzaccio - delle varie situazioni configurabili nell'attuale vivace dibattito sul tema drammatico della morte, situazioni da tenere ben distinte per evitare sovrapposizioni fuorvianti (accanimento terapeutico, rifiuto di cure, testamento biologico, suicidio assistito), il tema in esame riguarda il rifiuto alle cure; ma non nel senso di statuire sulla legittimità del diritto di rifiutare - nel caso dei testimoni di Geova - le trasfusioni di sangue anche se ciò determina la morte, ma, più limitatamente, di accertare la legittimità del comportamento dei sanitari che hanno praticato la trasfusione nel ragionevole convincimento che il primitivo rifiuto del paziente non fosse più valido e operante".



Ciao [SM=x570892]

Bruno
brunodb2
00martedì 27 febbraio 2007 18:44
Achille Lorenzi
00sabato 10 marzo 2007 06:57
Sentenza Cassazione sul rifiuto delle trasfusioni
Rifiuto delle trasfusioni ad opera del Testimone di Geova
Cassazione , sez. III civile, sentenza 23.02.2007 n° 4211 (Giuseppe Buffone)

Con la decisione depositata lo scorso 23 febbraio, la terza sezione civile della Cassazione torna ad occuparsi di una quaestio juris di massima importanza e di grande attualità afferente ai rapporti tra trattamenti sanitari salvifici e credo religioso del paziente: TS veniva, a seguito di un incidente stradale, ricoverato presso il pronto soccorso dell’Ospedale Santa Chiara ed immediatamente trasferito nel reparto di rianimazione perché affetto da rotture multiple e rottura dell’arteria principale con emorragia in atto. Nel corso del successivo intervento chirurgico veniva sottoposto a trasfusione sanguigna nonostante avesse dichiarato che, in ossequio alle proprie convinzioni religiose - essendo Testimone di Geova - non voleva gli venisse praticato tale trattamento. Proponeva domanda per il risarcimento del danno che veniva respinta dal giudice di prime cure con sentenza confermata in appello. Ricorre in Cassazione il TS ed il Collegio respinge l’impugnazione enunciando il seguente principio di diritto:

Se le trasfusioni sanguigne si rendono necessarie per scongiurare il pericolo di vita del paziente, il sanitario che le effettui, seppur a conoscenza del rifiuto del paziente stesso (nella fattispecie in quanto Testimone di Geova), pone in essere un comportamento scriminato ex articolo 54 c.p. che esclude la sussistenza di un qualsiasi danno risarcibile

Il Punctum Dolens: se il TdG rifiuta la trasfusione sanguigna

Nella fattispecie, afferma la Cassazione, sul Collegio degli ermellini incombe l’onere di accertare, “se il rifiuto al trattamento trasfusionale, esternato dal paziente TdG al momento del ricovero, potesse ritenersi operante anche al momento in cui le trasfusioni si resero necessarie”. Per la verità, il thema decidendum, è di più ampio respiro: non involge, infatti, solo l’operatività del consenso ma la sua stessa validità, profilo giuridico espressamente – seppur timidamente – affrontato in parte motiva. E’ opportuno, tuttavia, precisare che se il Collegio si pone siffatto problema è, in primis, perché riconosce – e non potrebbe non riconoscere – piena dignità, anche agli effetti giuridici, al credo religioso sotteso alla quaestio facti. Ed infatti, il primo tassello posto dal Collegio, deputato a restringere l’area del decisum, afferisce alle peculiarità del caso: in tanto il principio di diritto espresso ha validità in quanto l’intervento medico sia stato eseguito conseguentemente al verificarsi di uno stato di necessità (altrimenti non evitabile) . Per intenderci: il TdG, se in possesso delle sue piene capacità ricognitive e di autodeterminazione, ha il diritto di “rifiutare le cure”1 sub specie di rifiuto delle trasfusioni sanguigne2, trattamento terapeutico comunque invasivo che se imposto tinge la condotta sanitaria dei colori del delitto, con conseguente maturazione del diritto al ristoro3 anche ex art. 2059 c.c4.

Pertanto, la querelle concerne esclusivamente il caso in cui, allorché il paziente sia in stato di incoscienza, la sua vita sia in grave pericolo di irreversibile compromissione cui far fronte , quale extrema ratio, mediante trattamento trasfusionale5 (in materia si veda la recentissima legge 21 ottobre 2005, n. 219, rubricata: “Nuova disciplina delle attivita' trasfusionali e della produzione nazionale degli emoderivati”).

Il rifiuto delle trasfusioni nella confessione religiosa dei TdG

Il problema affrontato dal Collegio, sfociato nella lite giudiziaria, nasce dal rifiuto, opposto dai Testimoni di Geova, alle trasfusioni sanguigne, rifiuto motivato in virtù delle proprie convinzioni religiose (la Congregazione Cristiana dei Testimoni di Geova è riconosciuta dallo Stato come confessione religiosa ai sensi dell'art. 2 L. n. 1159/1929 e dell'art. 10 R.D. n. 289/1930).

Secondo la religione de qua6, le trasfusioni di sangue non possono essere effettuate dai credenti in virtù del dictum "astenetevi dal sangue" (Atti 15:297): peraltro, i testimoni di Geova considerano lecite terapie trasfusionali con sostanze diverse dal sangue[ quali, ad esempio, il Ringer Lattato o il Plasma expander. Secondo studi in argomento, la proibizione delle trasfusioni di sangue, presso i TdG, entrò in vigore nel 1945, quando fu annunciata sulla rivista "la Torre di Guardia" del 1 luglio 1945, nell'articolo intitolato "Santità del Sangue". Inoltre, colui che violasse la regula de qua viene espulso dalla Congregazione (secondo una norma in vigore dal 1961, mediante la pubblicazione de "La Torre di Guardia" del 15 luglio, alle pp. 446-448). La delicatezza della materia è affiorata allorché su "la Stampa" del 4 gennaio 1977 si parlò di Debora, una bambina di 14 mesi, ricoverata all'ospedale di Pescara la quale era stata salvata, nell’occasione, solo per l'intervento del magistrato che aveva ordinato la trasfusione nonostante l' opposizione della madre. E’ noto, peraltro, il caso giudiziario risolto nell’arresto Cass. pen., 13 dicembre 19838: nella specie è stata annullata con rinvio la sentenza dei giudici di appello, che aveva confermato la condanna a titolo di concorso in omicidio volontario di due genitori testimoni di Geova rifiutatisi di far sottoporre a periodiche trasfusioni di sangue la loro bambina affetta da talassemia così non impedendone la morte, per vizio di motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza del dolo omicidiario, posto che l'esistenza del dolo eventuale sotto forma di accettazione del rischio del verificarsi dell'evento letale avrebbe dovuto essere accertata tenendo conto della circostanza che il tribunale per i minorenni aveva emesso provvedimenti diretti a risolvere in via definitiva il problema relativo all'assistenza terapeutica della minore.

Rifiuto delle cure sub specie di trasfusioni: autodeterminazione terapeutica

Quanto al casus decisus, tuttavia, nella fattispecie esaminata dalla Corte, non viene in rilievo un minore rappresentato dal genitore ma un adulto dotato di piena capacità d'agire e di autodeterminazione in ordine al trattamento terapeutico. La Terza Sezione si pone, dunque, il problema di accertare, se il rifiuto al trattamento trasfusionale, esternato dal paziente TdG al momento del ricovero, potesse ritenersi operante anche al momento in cui le trasfusioni si resero necessarie, presupposto indefettibile per escludere una illiceità ab origine dell'intervento medico. Decidendo la questione, la Corte, "pur consapevole dell’importanza morale e culturale, prima ancora che giuridica della questione, ritiene che la motivazione dell’impugnata sentenza non sia censurabile": nel momento in cui le trasfusioni si rendano necessarie a scongiurare il pericolo di vita del paziente, il sanitario che le effettui, seppur a conoscenza del rifiuto del paziente stesso, pone in essere un comportamento scriminato ex articolo 54 c.p. che esclude la sussistenza di un qualsiasi danno risarcibile, perché - puntualizza il Collegio - questo è il problema da risolvere: "non circa il valore assoluto e definitivo di un dissenso pronunciato in virtù di un determinato credo ideologico e religioso ma la correttezza della motivazione con cui il giudice ha ritenuto che il dissenso originario, con una valutazione altamente probabilistica, non dovesse più considerarsi operante in un momento successivo, davanti ad un quadro clinico fortemente mutato e con imminente pericolo di vita e senza la possibilità di un ulteriore interpello dei paziente ormai anestetizzato". In conclusione, la Corte si sofferma, in via di obiter dicta, sull'attuale movimento tellurico di riforme afferenti al cd. testamento biologico ma precisa che la quaestio juris decisa esula dai temi prettamente collegati all'istituto delle direttive anticipate di trattamento terapeutico: non si tratta di vagliare la legittimità di un "rifiuto delle cure" ma la validità di un dissenso in un momento di incoscienza del paziente allorché la sua vita può essere compromessa.

(Altalex, 8 marzo 2007. Nota di Giuseppe Buffone)

________________


1 Santuosso, Dalla salute pubblica all’autodeterminazione, Le scienze quaderni, Bioetica, 88, II/1996; Barni, Santuosso, Amedea, Medicina e diritto, Milano, 1995; per reperire documenti, materiale ed altro materiale afferente ai rapporti tra medicina e bioetica v. anche www.unicz.it/didattica/corsi/anatomia_umana/index.htm, a cura del Prof. T. Barni.



2 Sui rischi ricollegati all’attività trasfusionale, v. André, Dreyfus, Salmon, Incidents et accidents de la trasfusion sanguine, Parigi, Masson, 1956.



3 Flores A., Il danno biologico post-trasfusionale: aspetti assicurativo-pratici”, XXIX Conv. naz. studi, Cernobbio, X/90, (I 8).



4 In argomento, v. Castellaneta, Costretta alla trasfusione, la Repubblica, 19/4/1995 (II 15).



5 In materia, oltre al significativo apporto a livello europeo, esistono in Italia precise linee guida al fine di un buon uso del sangue che, è opportuno ricordare, integra gli estremi di una attività pericolosa (art. 2050 c.c.) per effetto delle complicazioni possibili (in primis infezioni da batteri, virus o parassiti).



6 Come noto, taluni negano al credo dei testimoni di Geova la natura di vera e propria religione. L’assunto non può essere condiviso. Secondo una ricerca del CESNUR (Centro Studi sulle Nuove Religioni) del 2002, i Testimoni di Geova sono la seconda religione in Italia, se si considerano i cittadini italiani, o la terza (dopo i musulmani contando tutti gli abitanti). I Testimoni di Geova appartengono ad una comunità di origine cristiana fondata nel 1870. Il nome viene ripreso da un versetto biblico in Isaia 43:10 "Voi siete i miei testimoni". Utilizzano il termine Geova per indicare il nome di Dio, forma italianizzata del nome biblico originale "????" o "YHWH". La Congregazione Cristiana dei Testimoni di Geova è riconosciuta dallo Stato come confessione religiosa ai sensi dell'art. 2 L. n. 1159/1929 e dell'art. 10 R.D. n. 289/1930. La Congregazione cristiana dei testimoni di Geova è stata riconosciuta come ente morale, con personalità giuridica, con decreto del Presidente della Repubblica 31 ottobre 1986, n. 783, su conforme parere del Consiglio di Stato. Tra la Repubblica Italiana e la Congregazione Cristiana dei Testimoni di Geova è stata stipulata un'intesa ai sensi dell'art. 8 della Costituzione. Il testo, datato 18 novembre 1999 e approvato a maggioranza dal Consiglio dei ministri il 21 gennaio 2000, è stato sottoscritto dal Governo il 20 marzo 2000. A questo schema di intesa non è ancora seguita però la legge d'esecuzione (di competenza parlamentare), il che implica che non se ne può assumere l'immediata efficacia nel diritto statuale.



7 “..astenervi dalle carni offerte agli idoli, dal sangue, dagli animali soffocati e dalla impudicizia. Farete cosa buona perciò a guardarvi da queste cose. State bene”. Si adduce a sostegno, anche Genesi 9,3-6.



8 Foro It., 1984, II, 361, nota di FLORIS.




SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE III CIVILE

(Presidente Varrone – Relatore Amatucci)

Svolgimento del processo

Con citazione del 14/10/2002 T. S. proponeva appello avverso la sentenza del Tribunale di X., sezione stralcio, del 9/7/2002 di rigetto della domanda di risarcimento dei danni morali patiti per essere stato costretto, contro la sua volontà a subire l’intervento, espressamente rifiutato, di una trasfusione sanguigna.

Premesso, in fatto, che la mattina del 15/5/1990 veniva, a seguito di un incidente stradale, ricoverato presso il pronto soccorso dell’Ospedale Santa Chiara ed immediatamente trasferito nel reparto rianimazione perché affetto da rotture multiple e rottura dell’arteria principale con emorragia in atto; che nel corso del successivo intervento chirurgico veniva sottoposto a trasfusione sanguigna nonostante avesse dichiarato che, in ossequio alle proprie convinzioni religiose Testimone di Geova non voleva gli venisse praticato tale trattamento; tutto ciò premesso, si doleva dell’erroneità ed offensività della scarna sentenza, impugnata sotto diversi profili.

In primo luogo lamentava che il primo Giudice avesse affermato che,non essendo stato contestato ai sanitari alcun reato, non potesse essere loro addebitata alcuna responsabilità, ben potendo, al contrario, il Giudice civile accertare la sussistenza di un reato al limitato fine di decidere sulla domanda risarcitoria. Nella specie, in considerazione dell’esplicita manifestazione di volontà diretta a rifiutare la trasfusione, la consapevole e volontaria violazione, da parte dei sanitari, di tale volontà configurava gli estremi del reato di violenza privata.

In secondo luogo, il Tribunale aveva ritenuto che i sanitari si fossero trovati di fronte alla necessità di salvargli la vita e che, conseguentemente, ciò avrebbe reso comunque lecito, ai sensi dell’articolo 54 c.p., il loro comportamento. Senonché il presunto stato di necessità da una parte era stato causato dagli stessi sanitari, che erano intervenuti tardivamente operandolo dopo ben sei ore dal ricovero, dall’altra sarebbe stato evitabile trasferendolo in altro nosocomio attrezzato per l’autotrasfusione.

L’invito offensivo del Giudice a rivolgersi a “guaritori o sciamani”, poi, era del tutto inconferente non avendo egli assolutamente rifiutato la medicina tradizionale ma solo quel trattamento medico; del pari inaccettabili le considerazioni “etiche” del primo Giudice in ordine alla richiesta risarcitoria ed all’uso che avrebbe fatto della somma eventualmente percepita (mancata devoluzione in beneficenza).

Chiedeva pertanto, in riforma dell’impugnata decisione, il risarcimento di tutti i danni morali, patrimoniali e biologici subiti.

Si costituiva in giudizio l’Azienda Provinciale per i Servizi Sanitari della Provincia Autonoma di X. (ex USL 5) eccependo, in primo luogo, l’inammissibilità delle nuove domande volte ad ottenere il risarcimento anche del danno biologico e patrimoniale. Nel merito, chiedeva la conferma dell’impugnata decisione, evidenziando come la trasfusione fosse stata effettuata quando non c’erano alternative in considerazione delle condizioni di salute del S.; precisava come il diritto alla vita costituisse un diritto indisponibile costituzionalmente garantito di cui nessuno poteva disporre e come il rifiuto alla trasfusione fosse stato effettuato in un momento in cui le condizioni di salute non erano così gravi come quelle verificatesi poi, in sala operatoria, quando tale dissenso non poteva più essere manifestato. In ogni caso, se anche volessero ritenersi ravvisabili gli estremi di un reato, il comportamento dei sanitari doveva ritenersi scriminato, ai sensi dell’articolo 54 c.p., dalla necessità di salvare il S. dall’imminente ed incombente pericolo di morte.

Con sentenza 19 dicembre 2003 la Corte di Appello X. rigettava il gravame e dichiarava interamente compensate le spese del grado, affermando: che il primo problema era accertare se fosse possibile evitare le trasfusioni, se, cioè, l’aggravarsi dell’emorragia nel corso dell’operazione fosse prevedibile fin dal momento del ricovero; che la risposta doveva essere negativa dal momento che l’aggravamento delle condizioni del paziente era sopravvenuto appunto durante l’intervento e non poteva essere imputato ai sanitari; che l’altro nodo fondamentale da accertare era se il rifiuto al trattamento trasfusionale manifestato al momento del ricovero potesse ritenersi operante anche al momento in cui le trasfusioni si erano rese necessarie; che la risposta era “se non sicuramente negativa, quantomeno fortemente dubitativa”, essendo assai dubbio che il S., qualora avesse saputo dell’effettiva gravità della lesione e dell’incombente pericolo di vita, avrebbe senz’altro ribadito il suo dissenso, che per essere valido deve essere inequivocabile, attuale, effettivo e consapevole; che, comunque, anche nell’ipotesi in cui l’iniziale dissenso dovesse ritenersi perdurante nel tempo e che quindi i medici si fossero trovati ad operare nella certezza che il trattamento trasfusionale non era consentito dal paziente, tuttavia il comportamento dei sanitari doveva ritenersi scriminato alla luce dell’articolo 54 c.p., essendosi trovati nella necessità di salvare il S. dall’imminente ed incombente pericolo di morte.

Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso il S., affidandolo a due motivi, ai quali ha resistito l’azienda provinciale per i servizi sanitari della provincia autonoma di X. con controricorso.

Motivi della decisione

Con il primo motivo il ricorrente, denunciando la contraddittorietà e comunque la insufficienza della motivazione su punti decisivi della controversia, lamenta che il giudice del gravame non si è neppure posto il problema della evidente negligenza professionale dei sanitari nel l’inadeguatezza della diagnosi quanto alla lesione vascolare, nel senso che il quadro clinico, gravemente compromesso e peggiorato manifestatosi nel corso dell’intervento chirurgico, era perfettamente prevedibile proprio alla luce della diagnosi d’ingresso del paziente. In particolare, il S. afferma, in primo luogo, che la Corte d’appello aveva contraddittoriamente ritenuto che, durante l’intervento chirurgico, gli operatori s’erano trovati dì fronte ad una situazione non prevedibile al momento del ricovero e dei successivi esami clinici e strumentali per essere stata in origine diagnosticata una semplice lesione dell’arteria e della vena succlavia” e per essere stata invece riscontrata una “lacerazione” delle stesse in sala operatoria. Proprio la diagnosi di “lesione” dell’arteria e della vena succlavia avrebbe dovuto, all’opposto, indurre i sanitari ad intervenire immediatamente per frenare l’emorragia, così rendendo superflue le trasfusioni, invece di operare solo cinque ore più tardi, quando non erano più possibili terapie alternative alla trasfusione ematica ed il quadro clinico si presentava, come era del tutto prevedibile, gravemente peggiorato. Né poteva conferirsi alla diagnosi di “lesione dell’arteria e della vena succlavia” una valenza tanto riduttiva da escludere che essa comprendesse l’ipotesi, poi effettivamente riscontrata, dì una possibile lacerazione vascolare, giacché continua il ricorrente in tal caso ai medici sarebbe stato ascrivibile un errore diagnostico risoltosi non solo nella sottoposizione del paziente ad un trattamento terapeutico esplicitamente e ripetutamente rifiutato, ma anche nell’amputazione completa del braccio sinistro che era stata poi necessario praticare.

Si sostiene, in secondo luogo, che il paziente aveva immediatamente domandato di essere trasferito in un ospedale attrezzato per terapie alternative alla trasfusione ematica. La Corte d’appello aveva escluso che ai sanitari fosse ascrivibile qualsiasi responsabilità al riguardo in quanto le indispensabili indagini strumentali avrebbero consentito che ciò avvenisse “al più verso le ore 10”, quando egli non era più in condizione di essere trasferito. Ma osserva il ricorrente se già alle 10 i valori dell’ematocrito erano tanto pregiudicati da rendere impraticabile il trasferimento, è stato logicamente contraddittorio concludere sia che la situazione di emergenza fosse imprevedibile al momento del successivo intervento chirurgico, sia che i medici non versassero in colpa per non avere immediatamente frenato l’emorragia, suturando i vasi la cui “lesione” pure era stata riscontrata dalla ore 7,05.

Né, ancora, la Corte di merito s’era chiesta se l’arteriografia (pur ritenuta necessaria, unitamente all’indagine radiologica ed a quella tomografica, al fine di giustificare il tempo trascorso fino alle ore 10) fosse stata effettivamente eseguita, così offrendo anche una motivazione insufficiente sul punto.

Con il secondo motivo il S. denuncia la violazione e la falsa applicazione degli articolo 13, comma 1 e 32, comma 2, Costituzione e 54 c.p., contestando l’affermazione della Corte territoriale circa la non operatività del suo dissenso alle trasfusioni anche nel successivo momento in cui le stesse si erano rese necessarie. Obietta al riguardo il ricorrente che la richiesta di consenso per la trasfusione non poteva che riferirsi alla necessità di tale trattamento per il mantenimento in vita del paziente e che pertanto il suo rifiuto, espresso sino a pochi minuti prima dell’operazione, era pienamente valido anche pochi minuti dopo ed avrebbe dovuto indurre i medici a non violentare la sua volontà, ma ad adeguarvisi anche se ciò avesse dovuto mettere in pericolo la sua stessa vita.

Osserva inoltre che il richiamo della Corte di merito all’articolo 54 c.p. è erroneo, sia in ragione del fatto che lo stato dì necessità era venuto a determinarsi per negligenze degli stessi medici che si erano avvantaggiati della sua applicazione, sia perché lo stato di necessità può “sostituirsi al consenso mancante per rendere lecito un intervento medico d’urgenza, ma non può in alcun caso elidere e sopraffare il dissenso validamente espresso”, la cui vincolatività si basa sui principi espressi dalle. citate norme costituzionali. E, nel caso in esame, il paziente aveva legittimamente rifiutato un trattamento medico (trasfusione) che, nella sua scala di valori, gli pareva inaccettabile per motivi morali e religiosi, anche a costo del sacrificio della vita stessa.

Che, del resto, un intervento terapeutico non possa essere praticato senza il consenso “libero ed informato” del paziente è stabilito dall’articolo 5 della legge 28 marzo 2001 (recante “ratifica ed esecuzione della convenzione del Consiglio d’Europa per la protezione dei diritti dell’uomo e della dignità dell’essere umano riguardo all’applicazione della biologia e della medicina”), la quale fa bensì salvi gli interventi di urgenza indispensabili (articolo 8), ma con la precisazione che “i desideri precedentemente espressi a proposito di un intervento da parte di un paziente che, al momento dell’intervento, non è in grado di esprimere la sua volontà, saranno presi in considerazione” (articolo 9); nonché dall’articolo 32 (recte, 40) del codice di deontologia medica, il quale prescrive che non è “consentito alcun trattamento medico contro la volontà della persona”.

Nella specie conclude il ricorrente dopo diffusi richiami della giurisprudenza di legittimità e di merito l’essere stata la trasfusione praticata nonostante un dissenso manifestato per motivi religiosi (in quanto la stessa non è, appunto, ammissibile per gli aderenti alla fede dei testimoni di Geova) l’atto compiuto dai medici aveva comportato anche la violazione del principio stabilito dall’articolo 19 della Costituzione.

I due motivi, che per la stretta connessione e conseguenzialitá logico-giuridica possono esaminarsi congiuntamente, non sono fondati.

Per quanto concerne il primo motivo la Corte trentina, condividendo con apprezzamento consapevole e critico le conclusioni del C.T.U. , ha ritenuto che al momento del ricovero “appariva possibile una terapia alternativa alla trasfusione, che fu correttamente attuata dai sanitari della rianimazione”; che le emotrasfusioni si erano rese necessarie nel corso dell’intervento chirurgico “quando l’ulteriore peggioramento dell’ematocrito, l’ipertensione arteriosa ed il sanguinamento copioso dell’arteria lacerata ha fatto temere per la vita del paziente”; che il riscontro dell’importante lacerazione dell’arteria e della vena succlavia aveva prodotto necessariamente una emorragia del campo operatorio molto maggiore di quella prevista prima dell’intervento quando, in sede di visita preoperatoria, l’anestesista aveva annotato, mediante l’arteriografia, una ostruzione arteriosa a causa di un grosso ematoma, cosicché l’intervento era presumibilmente limitato allo svuotamento dell’ematoma ed alla decompressione dell’arteria; che neppure il C.T. di parte aveva ipotizzato la prevedibilità ex ante della lacerazione dell’arteria; che l’accertata situazione, oggettivamente diversa da quella iniziale, non poteva essere rimediata con il trasferimento del paziente nell’ospedale, meglio attrezzato, di Piacenza, atteso che le condizioni generali del S. e la caduta verticale dei valori ematici rendevano tale viaggio “molto rischioso per la vita”; tutto ciò premesso, la suddetta Corte ha tratto la conclusione che l’aggravamento del paziente, rivelatosi in sede operatoria, costituiva una situazione clinica oggettivamente e pesantemente diversa da quella diagnosticata all’atto del ricovero, non altrimenti evitabile e, soprattutto, non causata da imperizia e/o negligenza dei sanitari (si tenga presente, a quest’ultimo riguardo, che il S., pur avendo dovuto successivamente subire l’amputazione dell’arto, non ha mai proposto domanda risarcitoria per responsabilità professionale ex articolo 2236 c.c.).

Orbene, sembra doversi riconoscere che tali conclusioni sono sostenute da una motivazione ampia, analitica e niente affatto contraddittoria ed il primo motivo va, pertanto, rigettato.

Le conclusioni svolte introducono opportunamente l’esame dell’altro motivo con cui si affronta il nodo fondamentale per la decisione della presente controversia: accertare, cioè, se il rifiuto al trattamento trasfusionale, esternato dal S. al momento del ricovero, potesse ritenersi operante anche al momento in cui le trasfusioni si resero necessarie.
Il giudice del gravame, conformemente a quello di primo grado. ha ritenuto che la risposta ... è, se non sicuramente negativa, quanto meno fortemente dubitativa” in quanto “è più che ragionevole chiedersi se iI S., qualora avesse saputo dell’effettiva gravità della lesione e dell’attuale pericolo di vita, avrebbe senz’altro ribadito il proprio dissenso”. Ciò in virtù delle seguenti considerazioni: che anche il dissenso, come il consenso, deve essere inequivoco, attuale, effettivo e consapevole; che l’originario dissenso era stato espresso dal S. in un momento in cui le sue condizioni di salute non facevano temere un imminente pericolo di vita, tanto che il paziente era stato trattato con terapie alternative, che lo stesso S. aveva chiesto, qualora fosse stato ritenuto indispensabile ricorrere ad una trasfusione, di essere immediatamente trasferito presso un ospedale attrezzato per l’autotrasfusione, così manifestando, implicitamente ma chiaramente, il desiderio di essere curato e non certo di morire pur di evitare d’essere trasfuso; che alla luce di questi elementi e di un dissenso espresso prima dello stato d’incoscienza conseguente all’anestesia, era lecito domandarsi se sicuramente il S. non volesse essere trasfuso, ... o se invece fosse altamente perplesso e dubitabile, se non certo, che tale volontà fosse riferibile solo al precedente contesto temporale, meno grave, in cui l’uomo non versava ancora in pericolo di vita.

Ha aggiunto il suddetto giudice che anche nell’ipotesi in cui il dissenso originariamente manifestato dal S. fosse ritenuto perdurante, comunque il comportamento adottato dai sanitari sarebbe stato scriminato ex articolo 54 c.p. e che, quindi, esclusa l’illiceità di tale comportamento, doveva escludersi la sussistenza di un qualsiasi danno risarcibile.

Ora questa Corte, pur consapevole dell’importanza morale e culturale, prima ancora che giuridica della questione, ritiene che la motivazione dell’impugnata sentenza (perché, oltre alle asserite violazioni di legge, il ricorrente denuncia implicitamente anche un vizio di contraddittorietà della motivazione a pag. 9 - 10 del ricorso) non sia censurabile. Perché questo è il problema da risolvere: non circa il valore assoluto e definitivo di un dissenso pronunciato in virtù di un determinato credo ideologico e religioso (il rifiuto delle trasfusioni di sangue è fondato dalla comunità dei Testimoni di Geova su una particolare lettura di alcuni brani delle scritture: Gen. 9,3 - 6; Lev. 17,11; Atti 15, 28, 29), ma la correttezza della motivazione con cui il giudice trentino ha ritenuto che il dissenso originario, con una valutazione altamente probabilistica, non dovesse più considerarsi operante in un momento successivo, davanti ad un quadro clinico fortemente mutato e con imminente pericolo di vita e senza la possibilità di un ulteriore interpello dei paziente ormai anestetizzato.

Va aggiunto e precisato che tale motivazione non è viziata da errori di diritto, perché rispettosa della legge 145/01 (Ratifica ed esecuzione della Convenzione del Consiglio d’Europa per la protezione dei diritti dell’uomo e della dignità dell’essere umano riguardo all’applicazione della biologia e della medicina), che all’articolo 9 stabilisce che “i desideri precedentemente espressi a proposito di un intervento medico da parte di un paziente che, al momento dell’intervento, non è in grado di esprimere la sua volontà, saranno tenuti in considerazione”. e che i sanitari trentini li abbiano tenuti in considerazione, risulta non foss’altro dall’avere interpellato telefonicamente, in costanza di intervento operatorio, il Procuratore della Repubblica ricevendone implicitamente un invito ad agire. Per il resto, la motivazione sì fonda su argomenti congrui e logici, non conformi alle credenze della Comunità religiosa d’appartenenza del S., ma certo aderenti ad un diffuso sentire in questo tempo di così vivo ed ampio dibattito sui problemi esistenziali della vita e della morte, delle terapie e dei dolore (si consideri ad esempio, che nei vari disegni di legge sul “testamento biologico”, contenente cioè le anticipate direttive di un soggetto sano con riguardo alle terapie consentite in caso si trovi in stato di incoscienza, spesso è previsto che tali prescrizioni non siano vincolanti per il medico, che può decidere di non rispettarle motivando le sue ragioni nella cartella clinica). Insomma, delle varie situazioni configurabili nell’attuale vivace dibattito sul tema drammatico della morte, situazioni da tenere ben distinte per evitare sovrapposizioni fuorvianti (accanimento terapeutico, rifiuto dì cure, testamento biologico, suicidio assistito), il tema in esame riguarda appunto il rifiuto delle cure; ma non nel senso di statuire sulla legittimità del diritto di rifiutare nel caso dei Testimoni di Geova le trasfusioni di sangue anche se ciò determina la morte, ma, più limitatamente di accertare la legittimità del comportamento dei sanitari che hanno praticato la trasfusione nel ragionevole convincimento che il primitivo rifiuto del paziente non fosse più valido ed operante. A questo specifico riguardo la statuizione della Corte trentina dove ritenersi corretta ed il ricorso del S. non può trovare accoglimento.
La novità e la delicatezza delle questioni trattate costituiscono giusti motivi per compensare le spese di questo grado.

P.Q.M.

la Corte rigetta il ricorso e compensa le spese dei giudizio di cassazione.

Fonte: www.altalex.com/index.php?idstr=11&idnot=36235
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