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«Mamma, aiuto. Mi impiccano»

Ultimo Aggiornamento: 03/05/2009 20:02
03/05/2009 08:34
 
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Giustiziata la pittrice iraniana
Di Gian Micalessin

«Mamma mi stanno impiccando, mi portano alla forca, fate qualcosa, aiutatemi». Alle sei di mattina di venerdì, la madre e il padre di Delara ascoltano increduli la telefonata che li ha ridestati e trascinati nell’incubo. È l’ultima, estrema richiesta d’aiuto della loro bimba, ma loro stentano a crederci. Il 17 aprile l’ayatollah Mahmoud Hashemi Shahrudi, il capo del potere giudiziario di Teheran, ha regalato due mesi di speranza, due mesi per rivedere la condanna all’impiccagione. Non fanno in tempo a dirselo. L’urlo disperato di Delara riecheggia lontano.
Al suo posto ora c’è la voce di un funzionario indifferente, incaricato di cancellare l’ultima estrema illusione. «La stiamo impiccando, non potete farci niente». Pochi minuti dopo Delara Darabi, la minorenne assassina, la pittrice ravveduta, penzola dalla forca, simboleggia l’irremovibile, irreversibile brutalità di un sistema impietoso. Quell’ultima telefonata concessale mentre il boia già annodava il cappio è lo scampolo più atroce, più osceno, della triste storia di Delara Darabi. Più disumano del gesto del figlio della sua vittima, dell’uomo arrivato sul patibolo per passarle il nodo al collo ed ottenere il risarcimento di sangue previsto dal codice islamico iraniano. Se il taglione è sacra legge della Repubblica Islamica, l’atroce telefonata dal patibolo suona come l’estrema tenue resipiscenza dei carnefici di fronte ad una sentenza che non doveva essere eseguita. Una sentenza portata a compimento contro la volontà del potere giudiziario ed eseguita senza l’obbligatorio preavviso di 48 ore all’avvocato della 22enne Delara Darabi.
L’impiccagione della giovane pittrice sembra, insomma, l’ennesima concessione alla ragion di Stato dell’ala più dura del regime, la risposta dell’ala più oltranzista ad un rinvio che non s’era da fare. La cinica chiusura di un caso ormai famoso in tutto il mondo suona anche come l’ennesimo segnale all’America di Obama, l’ultimo niet dei duri e puri a trattative e concessioni. In Iran, del resto, solo l’avallo di esponenti molto in alto nella gerarchia del potere può spingere le autorità del dimenticato carcere di Rasht, nel nord del Paese, ad ignorare la decisione dell’ayatollah Shahrudi. Quell’esecuzione sbattuta in faccia al mondo che già sperava in un atto di clemenza è anche l’ennesimo segnale d’indifferenza per la sorte di altri 130 giovani condannati a morte come Delara, per delitti commessi prima del diciottesimo anno d’età.
La tragedia di Delara inizia cinque anni fa, quando lei e il fidanzato vengono ritrovati nell’abitazione di una ricca cugina paterna appena assassinata. In un angolo c’è il cadavere della padrona scannata a coltellate, in un altro ci sono quei due ragazzini frastornati con le mani sporche di sangue. Il primo a non farsi domande e a consegnare Delara alla polizia è suo padre. Lei del resto non fa nulla per discolparsi. Ammette ogni colpa, confessa l’accoltellamento, scagiona il fidanzato, garantendogli così una condanna a soli dieci anni di carcere. Poi però ritira la confessione, ritratta tutto. Dalla cella dove passa il tempo dipingendo racconta di essersi auto accusata nella convinzione di non poter venir condannata perché troppo giovane. La scena del delitto sembra darle ragione. Chi ha pugnalato la cugina del padre impugnava la lama con la mano destra. Delara invece è mancina dalla nascita, così mancina - ripete sempre la madre - da non riuscire a usare la destra neppure per raccogliersi i capelli. Proprio in base a questa evidenza ignorata dai giudici l’ayatollah Hashemi Shahrudi le concede quella sospensione della sentenza che fa sperare il mondo.
Ora è tutto finito e la famiglia è sprofondata nell’abisso della disperazione. Per il padre che l’aveva consegnata alla polizia senza dubitare la ritrattazione di Delara era già un personale senso di colpa. La telefonata dal patibolo è l’ultima pugnalata al cuore. Da venerdì mattina è all’ospedale, da venerdì non parla, non piange non mangia. Con Delara su quella forca sono soffocate anche la sua anima e la sua mente.

Fonte: www.ilgiornale.it/a.pic1?ID=348108&START=0&2col=

Achille

03/05/2009 09:06
 
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Questa storia, con le centinaia similari, dovrebbe far comprendere che nessuno ha diritto di condannare i propri simili.
Nè legge di stato, nè religione.
La pena che ora sente quel padre dovremmo sentirla nostra ogni volta che viene eseguita o che si invoca una sentenza di morte.Gabriella
03/05/2009 10:19
 
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(.. dedicata alle donne maltrattate e uccise)
di
mariella mulas

"Mai più"

Rosa china
in gambo pungente
che stille rosse
segnano di dolore
come parole
di oltraggio nel cuore.
Nel corpo abbandonato
pudore svelato,
la vita umiliata,
il germe spento
dal silenzio del respiro.
L’ultimo grido..
L’ultimo sguardo..
Mai più sarò
nella coscienza
a dirti infame
a dirti t’ho amato..
E tu
impaziente
mi hai reciso…
Ti lascio il mio inferno
come veste di perdono.


www.poesieracconti.it/poesie/opera-8817

[SM=x1061974]

03/05/2009 20:02
 
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Tragedia su tragedia: il delitto di quella povera donna, vittima di tutto e di tutti, la tragedia di una povera minorenne, Delara, che a pagato per qualcun'altro, la tragedia del padre inconsolabile.
il senso di impotenza è tale e tanto, che si può solo sperare a un risarcimento provvisto dal Creatore.
La resurrezione supererà tutta questa tragedia.
Un saluto a tutti voi e naturalmente a DELARA
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