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L'EMIGRANTE

Ultimo Aggiornamento: 17/01/2007 08:39
17/01/2007 08:39
 
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Ossia L’UOMO DIMENTICATO

Era il 5ottobre del 1968, quando il treno si fermò sul binario della stazione di Porta Nuova, a Torino, proveniente da Lecce, dopo un viaggio durato diciannove ore. L’emozione di rivedere, dopo tanti anni, mio padre era grande. Mia nonna Elvira aveva affrontato il suo ultimo viaggio in treno, per consegnarmi “giuridicamente” a suo figlio, mio padre, al quale, io e mio fratello Giuseppe, eravamo stati affidati, diversi anni prima, dopo la separazione dalla moglie, nostra madre. Ricordo che era una bella giornata, di inizio autunno, la temperatura era gradevole ed il cielo terso.

Aiutai la mia dolce ed anziana nonna Elvira a scendere, lentamente, gli alti gradini della carrozza, distrattamente scaricai veloce le valigie, i pacchi pieni di prodotti tipici pugliesi ed iniziammo a guardarci intorno, per individuare il volto amico di un uomo: quello di mio padre. Una moltitudine di persone si affrettava veloce verso le uscite, cariche di ogni cosa. Intorno a me baci, abbracci, dialetti conosciuti, commozione, lacrime, strette infinite. Nel sottofondo un mangiadischi suonava una canzone di Mino Reitano: “l’uomo e la valigia”. Una canzone che mi procurava grande commozione, perché dedicata all’emigrante, che parte per il nord, in cerca di fortuna. Un brano dolce, straziante e attuale in quel periodo storico. Quel brano rappresenta degnamente l’inno, mai cantato, all’emigrante.

Torino, in quel periodo era la “terra della speranza”, per i molti italiani del Sud, che, lasciate le loro terre e le proprie famiglie, si trasferivano a Torino o a Milano, le “due città locomotive” dell’economia italiana. Un’immagine mi è sempre rimasta impressa, nitida e positiva. La fotografia di quegli uomini, stanchi, con la barba incolta, che esprimevano la gioia semplice e pura di essere arrivati nella città delle possibilità. In questo viaggio, essi, riponevano tutte le loro aspettative, i loro desideri, i loro sogni, in un futuro meno amaro, nel quale potessero garantire una vita più dignitosa, al resto della famiglia rimasta al paese. La FIAT ingoiava “forzalavoro” con un ritmo di centinaia di nuove assunzioni al giorno e garantiva un salario triplo, rispetto agli stipendi medi, che venivano erogati nel sud Italia. Anche quella mattina, il treno della speranza, aveva portato a destinazione il suo carico di “braccia”. Persone semplici, grandi lavoratori, senza grilli per la testa, con obiettivi semplici da voler raggiungere: comprare la casa al paese, l’automobile e sistemare i figli. Pochi sapevano che, proprio in quel momento, era iniziato l’esodo di ognuno di loro e che a pochi sarebbe stato permesso, dal destino patrigno, di tornare alle proprie case, alle proprie terre, alla propria famiglia, alla propria cultura, alla propria tomba.

Fu difficile “spogliarsi completamente ”di ciò che si era, per indossare il nuovo abito di ciò che non si è e non si sarà mai: un altro uomo. Uno “stereotipo clonato” ad immagine e somiglianza di una città, di una cultura e di tradizioni straordinarie, importanti, ma che non possono cancellare, eliminare o far dimenticare le proprie . La scelta è quasi obbligatoria: o ci si fa fagocitare dalla nuova realtà e questa scelta evita grandi sofferenze, oppure, pur di mantenere viva la propria “anima culturale”, si accetta la nuova, ma non si abiura quella ereditaria. Questa scelta è la più dolorosa, perché crea una condizione, ben espressa dal poeta Caproni, che recita:”Se dovessi partire, sappiate che non sono mai arrivato; il mio viaggiare è stato un rimanere qua, dove non fui mai”.
In quel periodo storico c’erano ancora i cartelli, fuori dai palazzi, che affittavano alloggi, ma non ai meridionali ed ai veneti con figli.

I nostri corregionali iniziarono a vivere con il complesso di colpa di essere nati nel posto sbagliato e che questa condizione, impediva la loro completa accettazione da parte degli amici settentrionali. Iniziarono così a non parlare più il proprio dialetto e ad assumere una forma relazionale ibrida, con frasi intercalate di dialetto piemontese. Non contenti di tutto questo, alcuni, iniziarono a “sparare a zero” contro i corregionali rimasti al sud, perchè, forse, questo avrebbe regalato loro “qualche punto”, agli occhi dei settentrionali; ed in parte era vero. Il settentrionale misurava “il grado di civilizzazione” dei meridionali in base alla quantità di abiure fatte, in base alla dissociazione netta dei “neonordici” ed in base agli apprezzamenti negativi, che si facevano nelle fabbriche, a scapito dei corregionali del sud. Tutto ciò era aberrante. Quali colpe dovevamo farci perdonare e da chi? Che cosa avevamo fatto di tanto terribile, per non meritare un pò di lavoro al sud, per vivere dignitosamente? Quali colpe dovevamo espiare, per essere venuti in nord Italia a guadagnarci onestamente il pane? Perché mai è così difficile il rispetto delle altre culture e delle differenze? Questa emarginazione sottile e silenziosa non l’ho mai sopportata e l’ho sempre combattuta in solitudine, ma con coraggio e coerenza. L’uomo deve essere accettato per quello che è, non per quello che vorremmo che fosse .

Gli anni passavano in fretta ed anche il mio tormento esistenziale cresceva. La mia integrazione non è mai stata completa, ne da un punto di vista culturale, ne sociale e nemmeno politico. Non potevo subire, supino, le ingiustizie di una società meschina e pressapochista. Fu allora che decisi di viaggiare il più possibile, per conoscere, per capire e per osservare se, ai confini del mondo, potevo trovare le risposte alla mia esistenza e per cercare di dare un piccolo contributo personale “affinché gli uomini non dovessero più partire per sopravvivere”.
Iniziai a percorre i Paesi dell’ex Unione Sovietica, ad incontrare uomini di cultura, imprese, politici, contadini. Iniziai a visitare i quartieri più poveri, a prendere atto che se Cristo si è fermato ad Eboli, da quelle parti non c’è mai passato. Dopo la caduta del muro di Berlino, davanti ai miei occhi, c’era il nulla. Con l’avvento della democrazia, nessuno ha pensato che tolto un sistema, in cui quasi tutto era garantito, bisognava sostituirlo con qualcos’altro e lentamente andare verso il libero mercato. Evidentemente questa considerazione elementare non interessava nessuno.

Ognuno per se, Dio per tutti. Iniziai così ad occuparmi seriamente di progetti di cooperazione internazionale, con risorse private. Ossia, progetti di sviluppo territoriale, relativi a piccoli paesi o città in cui realizzare condizioni di crescita ed occupazione, insieme alle imprese italiane ed europee. Lo slogan era ed è:”restituiamo la dignità agli uomini,attraverso il lavoro”. Insomma, noi emigranti, non siamo mai riusciti ad essere dei veri settentrionali. Non siamo più meridionali, a tutti gli effetti, perché una volta partiti, i nostri corregionali, lentamente ed inconsapevolmente, aggiungo io, non ci hanno più accettati come tali; forse per esorcizzare una condizione, che sarebbe potuta capitare loro. L’emigrante, quando morirà non andrà in Paradiso e nemmeno all’inferno, perché quest’ultimo l’ha già vissuto. Ci toccherà il limbo (sperando che non lo tolgano). La nostra anima si troverà nelle stesse condizioni in cui ci siamo trovati da vivi: ne meridionali ne settentrionali. L’emigrante non è colui che è “andato fuori a lavorare o a far fortuna”, ma è colui che, ancor prima di morire, ha iniziato a scontare la sua pena.
Concludo dicendo che, la cosa peggiore, per un emigrante, non è morire, ma essere dimenticato…
Gianfranco
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