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GIULIA

Ultimo Aggiornamento: 17/01/2007 08:37
17/01/2007 08:37
 
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GIULIA


GLI AMORI IMPOSSIBILI

Quella che racconterò non è necessariamente la mia storia, ma la storia di un uomo qualunque, la storia delle sue miserie, delle sue fragilità, della sua vulnerabilità, della sua impotenza, di fronte alla vita ed al proprio destino.
Questa storia è dedicata a tutti gli esseri umani, che hanno il “coraggio di soffrire con dignità” di fronte al fallimento del loro sogno.


E’ piacevole la sensazione che si prova, quando, dopo molti anni, si torna al proprio Paese natio.
L’emozione che provai, nel leggere il cartello informativo, che mancavano dieci chilometri al casello di Bari, fu indescrivibile. Ero elettrizzato dall’eccitazione di vedere “casa mia”. L’emozione -in verità- iniziò ad assalirmi, 200 km prima, quando oltrepassai il Molise ed entrai in Puglia. La Puglia, la mia regione. La terrà che mi ha dato la vita, che mi ha trasmesso i valori, ai quali ispiro, ancora oggi, la mia vita, le mie scelte.
Ricordo che, il cuore batteva molto forte ed il momento di dover incontrare i miei parenti, i miei amici, mi innervosiva, mi procurava ansia, perché mi sentivo “inadeguato” alla circostanza, avvertivo il disagio dell’Emigrante, il quale essendo stato assente dalla sua Terra, torna pieno di speranza, di aspettative, inorgoglito di essere stato “al Nord” a lavorare e a tentare la fortuna. Questo emigrante torna, dopo molti lustri e per tutto il viaggio si è rivolto mille domande, ma non ha trovato una sola risposta.

Gli occhi scrutavano nervosi il paesaggio, avidi di immagini. Lo sguardo cercava un luogo, un colore, un riferimento, che mi desse conforto, che mi facesse riconoscere immediatamente la mia Terra. Questo mi avrebbe rilassato, mi avrebbe rincuorato, ma a parte il paesaggio infinito degli alberi di olive, tutto mi parve anonimo.
Erano già le diciassette passate, ero alla guida da circa undici ore, ed avevo percorso oltre mille chilometri. Ero stanco, ma felice in cuor mio, “di questa faticata”, che dopo molti anni, mi permetteva di tornare a casa.
Finalmente si vedevano, in lontananza, le corsie dei caselli autostradali, che mi confermavano l’arrivo a Bari. Sorridevo con tenerezza e compiacimento di ciò che il mio destino mi dava facoltà di vedere e vivere.

Ancor prima di arrestare la corsa della mia auto abbassai il finestrino, volevo essere avvolto da quella fresca brezza primaverile, che rendeva l’aria frizzante, piena di odori di fiori e di mare.
Finalmente avevo superato l’ultimo casello autostradale; mancavano oramai “solo” 100 Km. circa al raggiungimento della meta finale: Brindisi. Mentre mi dirigevo verso la superstrada, che mi avrebbe portato a destinazione, osservavo il traffico intenso e disordinato che affollava la superstrada, con gli automobilisti che guidavano veloci, quasi fossero in preda ad una nevrosi da ritardo. La mia andatura era divenuta moderata, rilassante, perché ero vicino alla meta e perché iniziavo a rilassarmi osservando il paesaggio circostante, fatto di agglomerati urbani, di quartieri nuovi, di nomi che indicavano le diverse uscite.

Bari era oramai alle mie spalle, il traffico si stava diradando, perché gli impiegati rientravano alle loro case, in Provincia di Bari, lasciando libera la superstrada ai camions che andavano, nei due sensi di marcia, verso le loro destinazioni. La maggior parte di essi trasportavano prodotti agroalimentari, per i mercati del centro – nord Italia, gli altri in direzione opposta, erano stranieri, che si dirigevano verso il porto di Brindisi per imbarcarsi verso la Grecia, la Turchia e l’Albania.
I miei occhi erano bramosi di immagini e di colori, essi si spostavano sui due lati della superstrada alla ricerca di un paesaggio, di uno scorcio da riconoscere. Gli oleandri iniziavano a fiorire, facendo intravedere una moltitudine di colori e di sfumature, che andavano dal bianco al rosa al rosso.
Accesi l’ennesima sigaretta, ne aspirai avido la prima boccata, espirando lentamente il fumo, il quale usciva prepotente dalle narici, formando due colonne di fumo che sembrava uscissero da due “tubi di scappamento”.

Aspirai immediatamente un’altra boccata portando la sigaretta alla bocca con la mano destra, essendo la sinistra “incollata” sul volante. I pensieri si affacciavano alla mia mente veloci, l’ansia si fece più forte, iniziarono a sudarmi le mani, la mente era concentrata al momento dell’arrivo e non mi accorsi che il contachilometri era “incollato” sui centottanta chilometri ora. Ebbi un sobbalzo di meraviglia, non mi ero accorto minimamente della velocità considerevole e pericolosa che avevo raggiunto, a causa del traffico quasi inesistente sulla direttrice sud. La fronte si imperlò di sudore, decisi di uscire allo svincolo successivo; la segnaletica informava che la prossima uscita sarebbe stata Savelletri.

Preso lo svincolo, istintivamente mi diressi verso il mare. Ero alla ricerca di uno scorcio, di un luogo, di un panorama che alleviasse, anche solo momentaneamente, il mio tormento esistenziale. Non ero certo della direzione imboccata, quella era una zona che non conoscevo, ma il mio istinto era più forte e mi esortava a proseguire. Non so descrivere con esattezza cosa sia quella ”forza”, che spinge una persona ad andare avanti, a proseguire verso la meta, anche se non la conosce. Credo sia l’istinto atavico, una specie di “DNA TERRITORIALE” che si fissa, a caratteri di fuoco, in ognuno di noi, al momento della nascita. Questo DNA certifica in maniera indelebile le proprie origini ed assume una condizione rilassata e di “serena convivenza” quando non esci dai confini, “mappati” dal DNA.

Appena si esce dai confini della Puglia, per periodi che superano i sette giorni, il sistema impiantato reagisce. E’ come se l’orologio biologico attivasse questo “allarme rosso”. Questo segnale non può essere disattivato ne dalle medicine, ne dall’alcool, ne dalle droghe. Nemmeno l’Amore ha il potere di disattivare “questa bomba” che cadenzialmente esplode dentro il proprio cervello, provocando grandi sofferenze. Queste detonazioni cadenziate, sono distanti l’una dall’altra, i primi anni, poi il sistema va il tilt e le deflagrazioni di sofferenza sono “a nastro”; intense, convulse, ripetute. La sofferenza è incommensurabile, i polmoni hanno difficoltà a respirare, la pressione sanguigna arriva a dei valori pericolosi, “l’Anima si strappa” totalmente, il cuore rigurgita di dolore insopportabile, subendo fitte lancinanti, simili a quelle provocate dalla punta di una lancia che ti punge. L’obiettivo è tormentarti, non ucciderti di dolore, il che sarebbe meglio, perlomeno cesserebbe questa sofferenza, che durava complessivamente da oltre 36 anni.

Procedevo lentamente, con lo sguardo attento alla strada ed al panorama, Ero alla ricerca della vita, con la quale dovevo fare la pace. Percorrendo la Litoranea, intravidi una stradina sulla destra, istintivamente misi “la freccia” e la imboccai, percorsi circa 100 metri, fermai l’auto, spensi il motore e scesi. Mi appoggiai alla macchina, accesi un’altra sigaretta, mentre gli occhi si riempivano di lacrime ed iniziò a prendermi un singulto che mi provocò un nodo in gola che mi impediva di aspirare il fumo della sigaretta. Le lacrime scendevano copiose sulle guance, sulle mani un percettibile tremolio mi convinse a gettare la sigaretta, mi appoggiai sul “tetto” dell’auto e mi lasciai andare ad un lungo pianto, liberando parte del mio antico dolore, che mi aveva accompagnato e tormentato fino ad allora. Ecco, la natura, “il mio Paese” si riprendeva ciò che mi aveva dato alla nascita. Il tributo di dolore, quasi ad espiare il fio, si stava versando. Il pianto irrefrenabile lasciò il posto ad un dolore smisurato, non riuscivo più a trattenerlo.

Fu allora che decisi di non “ostruirgli l’uscita”, affinché quella dolenza esagerata volgesse al termine. La disperazione venne fuori prepotente, provocandomi dei visibili sussulti, le lacrime solcavano copiose il mio viso, dalla bocca emergeva un lamento doloroso. Era il dolore che abbandonava la mia anima, anche se momentaneamente. Sapevo in cuor mio, che tutta quella sofferenza e quel dolore mi avrebbero atteso al varco. Sapevo che l’imboscata sarebbe avvenuta al mio ritorno in Nord Italia. Anche se avessi deciso di cambiare strada, essi lo avrebbero saputo, perché collegati stabilmente al mio cervello e sarebbero ugualmente saliti al volo sulla mia auto, per poi prendere posto comodamente dentro di me.
Dopo alcuni minuti riuscii a calmarmi, ero tramortito dalla sofferenza, spossato.

Asciugai lentamente gli occhi, per contemplare in religioso silenzio lo spettacolo che la natura mi aveva riservato. Non ricordo il nome di quella Frazione, ricordo che era composta da cinque case, abitate da un unico ceppo familiare. Una famiglia allargata di pescatori di ricci di mare. Famiglia patriarcale, che gestiva insieme ai figli l’attività di pesca del frutto di mare più amato, ambito, desiderato ed erotico che madre natura abbia messo a disposizione degli uomini per deliziare il loro palato ed il loro “sistemino ghiandolare”.
Le nuore si occupavano della preparazione dei prodotti cotti e lavorati: alici, pane e pasta fatti in casa, vino, antipasti vari. “L’organigramma familiare” era perfetto, il “lay out produttivo” sembrava studiato alla Bocconi di Milano.
Gli uomini, con sicurezza e velocità aprivano i ricci ordinati dai clienti, le donne, belle, provvedevano a servire tutta una serie di “stuzzichini” che avrebbero completato lo spuntino tardo pomeridiano. Il tutto accompagnato da un caldo pane casereccio ed innaffiato da un vino “casaluru” bianco e freddo, servito in una brocca di terracotta.

Le case erano piccole ed ordinate, rispecchiavano pienamente il paesaggio e l’architettura locale. Sembrava un dipinto naif che “innamorava” il cuore. Le tre barche a motore erano a riva sull’unico lembo di sabbia presente. La costa era frastagliata da scogli, il mare calmo, il cielo era sereno, persino l’aria mi sembrava meno frizzante. Questa “cooperativa familiare” aveva attrezzato due “gazebo in paglia”. Sotto il primo c’erano dei frigo – bar con dentro i frutti di mare pescati, sotto al secondo erano stati posti dei tavoli quadrati in legno, con le rispettive sedie. Sul tavolo delle tovaglie plastificate con motivi floreali, che mi ricordavano quelle della mia infanzia. Questo gazebo era stato posto a circa 4 metri dalla risacca del mare. Il suo profumo inebriava le avide narici, che inspiravano profondamente quel profumo che non sentivano da molti anni.
Due persone camminavano verso di me.

Erano il padre con un figlio, che avendo assistito “alla mia crisi”, venivano verso di me con passo spedito e con il volto seriamente preoccupato.
Si avvicinarono con rispetto, e mentre il padre anziano mi sosteneva per un gomito, quasi volesse farsi carico del peso del mio dolore, il figlio mi chiese, in un italiano incerto, ma comprensibilissimo per un uomo del Sud, come me, se avessi bisogno di aiuto e della motivazione di cotanta disperazione.
Con dolcezza mi invitarono a seguirli, cosa che feci volentieri. Essi mi invitarono a prendere posto ad una tavolino sotto il gazebo, presero posto vicino a me e con apprensione e discrezione iniziarono ad interessarsi a me. Sembrava che volessero darmi tutto il contributo personale, possibile, per risolvere i miei problemi; ma essi non ne conoscevano la natura.

E’ tenero il sentimento di solidarietà che solo noi riusciamo ad esprimere, anche verso chi non conosciamo direttamente. Osservavo i loro volti, vedevo le loro labbra muoversi, aiutate dalla gestualità spontanea delle loro mani, che in ogni modo volevano confortarmi. Li rassicurai sul mio stato e giustificai il mio precedente sfogo come una legittima emozione provata nel rivedere una parte del mio Paese. Non ritenni opportuno farli entrare, in quel momento storico, nella parte più intima e segreta della mia vita.
L’uomo anziano, con i suoi modi, mi affascinava. Non avrei mai pensato che quell’uomo, temprato dalla fatica del lavoro, con il viso segnato dal tempo, “intagliato a colpi d’ascia”, con quelle mani da lavoratore, non abituate alla dolcezza, fosse così capace di confortare uno sconosciuto, appena incontrato. Saputo che sono un emigrante, emozionato di tornare a casa, iniziò a lanciare “strali” sulla classe politica, sul fato, sul destino patrigno. Le mani vorticavano in aria, disegnando delle figure indecifrabili. Io credo che, sapute le ragioni della mia afflizione, si sia tranquillizzato, forse perché pensava a qualcosa, di più grave, secondo il suo criterio di valutazione.

La “dolcezza della parlata” mi commuoveva ed inteneriva ulteriormente. Avrei voluto quel padre, un uomo concreto, serio, severo, pragmatico, dagli ideali e dai valori semplici a cui quelle generazioni di persone si è sempre ispirata: la Famiglia, Dio, il Lavoro, la Solidarietà. Princìpi educativi, che aveva trasmesso ai figli, senza grandi e ridondanti parole, ma con il pragmatismo degli “uomini di una volta”: “Verba movent, exempla trahunt”, (Le parole muovono le coscienze, l’esempio trascina le folle).
Ora il signor Mimmo rideva divertito, mi confortava dicendo in dialetto barese: “Mò vit, ca t mange to rizz, ti mbiv nu bicchier di vin e ti sient angrazi d’ Die”.
Aveva pronunciato una formula magica, aiutandosi con le mani, che aveva sortito il suo effetto. Un sorriso comparve sul mio viso, che rassicurò sia il signor Mimmo, che rideva di gusto, appoggiando ripetutamente la mano callosa sul mio ginocchio, mentre “Frangh”, il figlio sprizzava gioia in maniera più contenuta; anche perché egli non aveva ancora la “dignità di capofamiglia”, ancora saldamente in mano al padre.
Ero felice, tutto era perfetto, il paesaggio, i profumi, l’aria fresca, il sussurrio del mare, la solidarietà umana dei miei corregionali, che avevano deciso di “adottarmi” per alcune ore.

Fu allora che il signor Mimmo si alzò in piedi aiutandosi con una pacca decisa sul suo ginocchio e chiudendo la mano destra a cono, la portò alla bocca. Tuonò un ordine perentorio alle donne, le quali dopo pochi attimi si precipitarono verso di noi, nelle mani tutto il ben di Dio che ogni uomo, di buon appetito, può desiderare in quel momento.
Era una scena da ‘900, cinque donne si affrettavano verso di noi. Davanti l’anziana moglie di Mimmo, dietro, schierate le nuore. Dio mio! Erano tutte belle, attraenti, femminili, con indosso dei vestitini fin troppo leggeri per il periodo. Una di queste attirò in modo particolare la mia attenzione. Per convenzione la chiamerò Giulia. Aveva uno sguardo profondo e penetrante. Sembrava volesse andare a leggere nel cuore ed in fondo all’anima le mie inquietudini esistenziali. Sentii un leggero disagio ad incrociare il suo sguardo. Ero ipnotizzato dai suoi occhi, dalla sicurezza del suo passo deciso, dalle sue movenze, dalle sue forme femminili e dal suo seno. Mentre camminava decisa, si intravedeva la gamba ed una parte generosa della coscia sinistra, che confermavano la femminilità e la bellezza di quella donna. I capelli biondi, inverosimilmente lunghi sino ai glutei, giocavano con l’aria che li indispettiva muovendoli continuamente.

Era uno splendore. Era la bellezza incarnata per antonomasia, viva, pulsante, vera, di carne e sangue. La pelle, leggermente brunita dava un riflesso ramato, quando gli ultimi raggi del sole l’accarezzavano.
Avrà avuto circa 10 anni meno di me, ma non li dimostrava assolutamente. Il viso era fresco, dai lineamenti morbidi e ben delineati, le sopracciglia ben disegnate, esaltavano gli zigomi visibili, le labbra voluttuose e protette da un rossetto rosso tenue, che ne esaltava i contorni, donandole la turgidità sensuale, che mostrava con grande compiacimento.
Si avvicinò al mio tavolo, mi sorrise compiaciuta, aumentando ulteriormente il mio disagio. Poggiò piatti, posate, bicchieri e tovaglioli. Li ordinò davanti a me continuando a guardarmi sorridendo dolcemente. Nel apparecchiare dovette chinarsi leggermente, offrendomi lo spettacolo del suo seno straordinario, che mi provocò un brivido all’altezza della nuca. D’istinto voltai lo sguardo verso il mare, non perché non apprezzassi la bellezza di Giulia, ma perché ero fortemente imbarazzato dalla situazione, cosa che non sembrava essere lei, divertita dalla mia reazione. Mi voltai verso di lei, la guardai intensamente negli occhi e le sussurrai senza voce: “lei è bellissima”.

Abbassai gli occhi, imbarazzato dal suo sguardo pungente, lei si sedette, di fronte a me, prese la brocca e versò il vino in due bicchieri. In silenzio ne prese uno, aspettando che io impugnassi l’altro, lo alzò e lo porto alle labbra. Io la imitai, bevendo velocemente metà del bicchiere di vino. Mi guardò e ridendo mi disse che quel vino era “traditore”, perché naturale, con 13 gradi di gradazione alcolica, in grado di confondere anche la mente più lucida. Io la osservavo compiaciuto, non so perché ma le sue parole sembravano descrivere più se stessa che il vino che stavo bevendo.
Nel frattempo la moglie di Mimmo si era affrettata a portarmi delle alici fresche, fritte e delle alici marinate, che Giulia si affretto a puntualizzare che le aveva fatte lei. Un’altra donna, di una bellezza diversa dalla Giulia, mi poggiò davanti un piatto con dentro i “lambasciaun” alla barese, con gusti, odori e peperoncino, tutti affogati in un rigoroso olio extra vergine di oliva, da loro prodotto.
Il pane emanava un “profumo primitivo, atavico, d’altri tempi, d’altri forni. Era bello solo a vedersi, ne afferrai delicatamente un pezzo, lo portai al naso ed inspirai profondamente, per inebriare il mio cervello con la tonda fragranza che sprigionava.
La sensazione fu intensa e mi fece rabbrividire di piacere. Mi accorsi che istintivamente avevo chiuso gli occhi per meglio concentrarmi sull’essenza del pane, gli aprii ed osservai che Giulia mi guardava profondamente. Il sorriso appena accennato donava alle sue labbra una forma amorevole, che invitava ad un bacio caldo, appassionato, disperato.

Accavallò le gambe mostrandomi parte delle sue splendide cosce, impugnò una forchetta, infilzò un “lampascione” e lo portò alla mia bocca, invitandomi ad aprirla, come si fa con i bambini che non hanno voglia di mangiare. Il mio imbarazzo era grande, sentivo la tensione che mi irrigidiva la nuca, producendomi un formicolio fastidioso. Il suo comportamento era semplice, spontaneo, puro, scevro di qualsiasi forma di ambiguità. Questo suo atteggiamento non collimava con la valutazione soggettiva che io elaboravo in tempo reale. Ciò che per me poteva essere inopportuno, imbarazzante e compromettente, per Giulia e la sua famiglia era una normale dimostrazione di “affetto solidale”, completamente puro e privo di qualsiasi altro senso. Per un uomo del Sud, come me, il quale credeva che, ogni azione, parola o sguardo, che un uomo ed una donna si scambiavano, era mirato all’interesse personale di uno per l’altro e non ad una condizione di “affetto solidale” dal contenuto neutro. Perlomeno il mio cervello non poteva o voleva prendere in considerazione questo aspetto. Giulia io la guardavo per quello che era e per quello per cui destava il mio enorme interesse: una bellissima, sconvolgente e sensuale donna.

Socchiusi le labbra, lei delicatamente mi imboccò il primo di una serie di lampascioni, che io irroravo di vino ad ogni boccone. Un gioco sensuale dolce, accattivante, coinvolgente. Io ancora oggi sono certo che io e lei, in quel momento non stavamo realizzando un rapporto di “affetto solidale”, ma avevamo sconfinato, complici entrambi in un rapporto licenzioso, senza dirsi una parola. Quella donna che mi stava seduta di fronte in tutta la sua bellezza, si prendeva cura di me come uomo e non come “malato”, eppure non sapevo nulla di lei, non era passata mezz’ora ed io ero li, seduto in riva la mare con la donna che avevo cercato per tutta la vita e che, finalmente, avevo trovato. Ero completamente immerso in una condizione di beatitudine, quando una voce maschile, alle spalle, mi preavvisò del suo arrivo. Era Mimmo, con in mano due “guantiere” di ricci aperti. Me li passò delicatamente sotto il naso, aspirai profondamente, a pieni polmoni. Un profumo pungente, marcato penetrante di mare mi salì velocemente al cervello, paralizzando i miei sensi. Il sistema ghiandolare pulsò violentemente, la testa si ritrasse leggermente indietro, quasi a proteggere i miei sensi, da quel profondo profumo di mare che sprigionavano i ricci. Mi ripresi immediatamente da quello “stordimento momentaneo”, mentre Mimmo poggiava sul tavolo i due vassoi ricolmi.

Disse a Giulia qualcosa, in dialetto stretto, che non capii subito, intuii il contenuto quando vidi lei che prese la brocca, per riempire nuovamente il bicchiere. Mimmo, usando una formula aulica, chiese il permesso di allontanarsi per un momento, tutti lo seguirono verso casa, lei no. Lei sembrava non avesse sentito, oppure sapeva che l’invito non era esteso a lei. Lei si alzò senza dire nulla, la seguii con lo sguardo, mentre si dirigeva all’altro gazebo, si abbassò e prese una lampada a gas, come quelle che si usano in campeggio. Tornò al tavolo, prese il mio accendino ed accese la lampada. Il sole era quasi completamente tramontato e non essendoci una illuminazione centralizzata, sotto i gazebo, si rendeva necessaria un’alternativa.
Poggiò la lanterna al centro del tavolo poggio il gomito destro sul tavolo aprì delicatamente la mano e vi appoggiò il suo viso. Sul volto si formarono dei chiaro scuri che ne esaltavano il profilo, le unghie, curatissime, riflettevano la luce della lampada, che assumeva tonalità dall’arancione al giallo. I giochi di luci davano un fascino speciale al momento magico che stavo vivendo. Gli occhi fiammeggiavano di una luce metafisica rendendo lo sguardo ulteriormente penetrante ed intenso. I capelli avevano riflessi che si osservano su un campo di grano, l’estate, quando il vento muove le spighe disordinatamente, offrendo superfici diverse ai raggi del sole, rendendo possibile giochi di luce unici, come quelli che si possono ammirare nelle campagne ungheresi alla fine di giugno. Io ero paralizzato da quello sguardo profondo, capace di scavare nell’anima, fino a scoprine tutte le pieghe nascoste. Lei mi invitò a mangiare i ricci, io ero immobilizzato dalla sua presenza e dal suo carattere volitivo, che mi intimidiva. Lei prese delicatamente un riccio e me lo porse. Io lo accettai, ma rimasi bloccato con il riccio nella mano. Ero imbarazzato, perché non conoscevo “il modo giusto” di consumare “l’echinoderma”.

Credo mi avesse letto nel pensiero, afferrò un altro riccio e divertita lo portò alla sua bocca. I suoi occhi si abbassarono, quasi fino a chiudersi. Non riuscii a vedere che cosa stesse accadendo, in quel momento, al riccio; lo capii appena lo poggiò, vuoto nel piatto adibito a contenere i gusci. Lo aveva svuotato completamente. Nel guscio non c’era più nemmeno l’ombra della polpa di riccio. Lo aveva “sgusciato”, avvalendosi solo della lingua. La bocca incollata, a ventosa, sulla metà del guscio, impediva la vista di ciò che sarebbe avvenuto da li a poco. La lingua, con movimenti rapidi e sapienti si era avviluppata in un abbraccio mortale alla polpa che in breve tempo ha capitolato; cazzo che bella morte!! Mi osservava, divertita dallo sbigottimento, che il mio viso esprimeva. Ero perplesso, anche perché io sono sempre stato psicologicamente delicato ed introverso, quindi, confrontarmi a freddo, con un vulcano del genere, non faceva altro che confermarmi l’enorme svantaggio in cui mi trovavo. Io presi un pezzo di pane, “scazzicai” la polpa del riccio e lo portai alla bocca. Un lungo fremito attraversò il mio cervello, il respiro si fece più veloce, i miei occhi si chiusero, la testa scivolò indietro, ogni energia aveva abbandonato momentaneamente il mio corpo, per “fare spazio” alle sensazioni che provavo. Ogni papilla gustativa attingeva tutte le informazioni possibili e le fissava sulle tavole della mia memoria. L’intensità emotiva di quel momento rimarrà vivo nella mia memoria, perché è stato uno dei momenti più significativi, profondi e intensi che abbia mai vissuto.

Quando riaprii gli occhi, anche Giulia mangiava i ricci, con la mollica di pane che, con delicatezza, portava alla bocca. Ogni suo movimento era studiato per aumentare l’intensità emotiva di quella sera. Ogni volta che portava la polpa di riccio alla bocca, dischiudeva lentamente le labbra e faceva in modo che queste non sfiorassero minimamente il boccone, per non “rovinare il rossetto”.
A quel punto mi accorsi che non la stavo più guardando; ma la stavo contemplando. Percorrevo con gli occhi tutto il suo corpo, come uno scanner, facendo attenzione a non trascurare alcun particolare estetico e caratteriale.
Ogni suo gesto, ogni suo movimento era intriso di sensualità. Le versai del vino, lei piegò la testa verso destra e mi sorrise, i lunghi capelli biondi le scivolarono sul fianco ed una lunga ciocca le si posò sul seno. Ero completamente pazzo di lei. Sorridevo sorpreso ed incredulo del fatto che stavo vivendo una situazione paradossale, che andava oltre qualsiasi raziocinio. Cioè, io mi stavo innamorando perdutamente di una bellissima sconosciuta, che mi stava di fronte, forse sposata, felice, forse aveva dei figli. Io non sapevo nulla di lei della sua vita, delle sue aspirazioni, delle sue aspettative, dei suoi sogni, dei suoi progetti. Io non sapevo cosa fare se non guardarla languidamente, cercando di esprimere nel modo più profondo possibile i miei sentimenti ed il mio desiderio.

I suoi occhi brillavano vivamente, effondendo una luce sfavillante che mi aveva conquistato del tutto. Continuammo a mangiare i ricci, poi le alici e continuammo a bere senza contare il numero di bicchieri ingurgitati. Vino veritas, al punto tale che messo da parte l’imbarazzo iniziale e confortato dal suo comportamento protettivo le accarezzai la mano sinistra. Fu una carezza lunga e lieve, che percorse tutto il dorso della mano, fino alle affusolate dita. Il mio indice si soffermò sull’unghia, del suo dito indice, accarezzandola dolcemente. I suoi occhi erano commossi da quella mia tenerezza. Ora lei era visibilmente imbarazzata, un leggero colore rosso aveva dipinto le sue gote, esaltando ulteriormente lo splendore di quel volto. Tutto intorno era buio, silenzioso. L’unico rumore udibile era quello del mare, che delicatamente “si arenava” sugli scogli. L’unico testimone di questa storia d’amore era il mare, che pudìco mormorava una litania di sottofondo, che rendeva ancor più magico quel momento. Un brivido di freddo pervase il corpo di Giulia, mi alzai, mi sfilai la giacca e la poggiai con delicatezza sulle sue spalle. Con una mano spostai delicatamente quella chioma fluente fuori dalla giacca e la poggiai delicatamente in avanti, sul lato. Rimasi immobile, davanti a lei, a guardarla intensamente, il tempo e lo spazio persero di valore, il mondo dei mortali non mi serviva più, io avevo trovato il mio mondo, il mio solo mondo, l’unico mondo che mi interessava veramente e che avevo cercato per tutta la vita.

Ogni convenzione, protocollo, giudizio e conseguenza, avevano perso il loro potere inibitore. Ero felicemente ebbro di vino e d’amore. Mi sentivo impazzire dalla gioia. Dentro di me sentivo il desiderio incontenibile di urlare alla natura, ad ogni essere umano, al mondo intero la mia infinita felicità. Gli occhi si riempirono di lacrime, che traboccanti iniziarono a scendere, come un fiume incontenibile, sul mio viso. Il dolore era straziante, lancinante, insopportabile. Ero immensamente felice e soffrivo terribilmente. Dio! Dio! Dio degli uomini, tu che lasci affogare tuo figlio, in questa valle di lacrime, muoviti a compassione e dona la legittima felicità, ad un uomo ed una donna, i quali hanno capito che, il loro destino, è indissolubilmente legato, da un amore infinito.
Attesi con il cuore aperto e l’orecchio teso, una risposta udibile, comprensibile, di conforto, di soluzione finale. Nulla, solo il vento che giocava con i suoi capelli, mentre le lacrime scendevano, abbondanti, dai suoi occhi.
Presi il fazzoletto pulito e le tamponai delicatamente il viso, per asciugare quelle amare lacrime. Mentre raccoglievo “quelle perle” con il fazzoletto, cercai di dire qualcosa, che potesse confortarla, ma invano. Le parole mi morivano in gola, provocandomi una frustrazione ulteriore. Lei prese il mio fazzoletto, lo passo dolcemente su tutto il viso chiudendo gli occhi, li riaprì, lo portò alla bocca, vi appoggiò le sue labbra con decisione e me lo restituì. Lo presi, lo guardai con tenerezza, sopra vi erano impresse le sue labbra dipinte di rosso tenue.

Lo avvicinai alle mie labbra e lo baciai delicatamente. Lei scoppiò in un pianto disperato, prese il volto tra le sue mani ed i biondi capelli scivolarono dolcemente in avanti, formando un velo delicato, che la nascondevano ai miei occhi. Avrei voluto abbracciarla, stringerla forte a me fino a farle mancare il respiro, averi voluto urlare tutto il mio amore, avrei voluto baciarla con tutta la passione di cui sono capace, avrei voluto respirarle l’anima, ma ero immobile di fronte a lei, anestetizzato dal mio dolore e chiuso in un doloroso mutismo.
Secondo gli Indù io e Giulia, in un’altra vita, ci siamo molto amati e siamo stati felici, fino a quando, il Gianfranco di allora, fece adirare la dea Fhaar la quale lo condannò alla solitudine interiore più profonda, che lo avrebbe obbligato a girovagare, errante, alla ricerca della sua Giulia. Quel Gianfranco aveva ritrovato la sua Giulia, ma per l’ennesima volta, la maledizione della dea gli impedisce di coronare la loro felicità. Il nostro Karma è ancora pesante, troppo pesante per poter essere sostenuto da due anime infelici. Evidentemente io e lei ci eravamo ritrovati dopo molti secoli di ricerche, di desiderio di felicità non avuta. Ma le nostre due barche sono ancora due gusci troppo fragili ed al momento inadeguati, per affrontare e sconfiggere la tempesta della dea Fhaar.
Lasciai scivolare delle banconote sul tavolino, mi voltai e risalii in macchina. Il mio ultimo sguardo fu per lei, per quell’immagine di donna, colma di sofferenza. Il mio cuore si pietrificò a tal punto che si rifiuta, ancora oggi, di far entrare qualsiasi sentimento, il quale non farebbe altro che riaprire ferite mai rimarginate.

Mi destai di soprassalto urlando, il cuore batteva forte nella notte più buia. Non riuscivo a capire dove fossi e cosa stesse succedendo. Il corpo era bagnato dal sudore freddo, la fronte imperlata, le membra tremanti. Istintivamente allungai la mano verso il comodino, per accendere la luce. Mi guardai intorno, per riconoscere il luogo. Mi tranquillizzai, quando presi coscienza che ero in albergo. Mi alzai, accesi una sigaretta ed accesi a basso volume la televisione, erano le quattro del mattino. Mi stavo tranquillizzando. Pensai di aver avuto un incubo. Aspirai avidamente il fumo e lo espirai rilassato. Passai la mano sinistra sul viso, per controllare la lunghezza della barba e sentii una puntura sul dito indice. Mi avvicinai alla plic del comodino per vedere cosa fosse, presi il fazzoletto per asciugare la fronte e inforcati gli occhiali ispezionai il dito che mi faceva male. Piantata sul polpastrello c’era una spina nera, che aveva provocato un’infiammazione della falange. Presi il fazzoletto per tamponare la fronte madida di sudore e mi accorsi che profumava stranamente, lo guardai e mi si gelò il sangue nelle vene, vi erano impresse due labbra di donna, dal colore rosso tenue.
Gianfranco
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