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L'INFERNO DEGLI ANGELI

Ultimo Aggiornamento: 17/01/2007 08:35
17/01/2007 08:35
 
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Sono passati oltre quindici anni, da quando visitai il primo orfanotrofio nell’est Europa. Ricordo che rimasi turbato per alcuni anni, da quella visita.
Tengo a precisare che quella era la situazione, in quel momento storico e che oggi la situazione sarà senz’altro migliorata, dalla mia ultima visita di sei anni fa (almeno lo spero).
Nella mia vita ho visitato in tutto quattro orfanotrofi: in Romania, in Bulgaria, in Moldavia e in Bielorussia.
L’orfanotrofio di cui voglio raccontare è il classico istituto presente sul territorio dell’ex U.R.S.S. , per architettura, colori, organigramma, progetto pedagogico. Le differenze sono solo dettagli trascurabili, di fronte al dramma di bambini, che hanno avuto il solo torto di nascere, contro la loro volontà e per questo “peccato” sono stati condannati “all’inferno”.

La prima cosa che vidi fu un viale, lungo, eterno, pieno di cipressi, lunghi, uguali, equidistanti. la pavimentazione era stata realizzata con un impasto di cemento e ghiaia, per renderlo antisdrucciolevole durante l’inverno. L’auto procedeva lentamente, quasi avesse anch’essa timore di varcare quella soglia. Io non fiatai, il mio accompagnatore, un monaco cristiano ortodosso, conosciuto anni prima, parlava sottovoce, ma non compresi nulla di ciò che diceva. La mia attenzione era concentrata nell’osservare l’edificio di colore grigio topo, che intravedevo sul lato sinistro. Una struttura interminabile, con poche finestre, sbarre alle finestre, senza balconi e senza tende. Alcune finestre erano coperte da un foglio di plastica trasparente. Le poche porte al piano terreno erano semi demolite.

Non vidi un solo vaso di fiori, una sola pianta, un solo albero, diverso dai cipressi.
Davanti a me, in fondo, si intravedeva la fine del viale ed un caseggiato, anch’esso di colore grigio topo.
Arrivati davanti spensi il motore e rimasi muto, seduto al volante, con lo sguardo fisso in avanti. Lungo la parete del caseggiato c’era una panchina in legno vecchia e sporca, dal colore indefinibile. Seduto sopra, una creatura di circa 5 – 6 anni. Non riuscivo a capire se fosse un bambino o una bambina. I capelli erano tagliati a zero, il viso e le mani erano molto sporche, la maglia, originariamente rossa, era lacera all’altezza dei gomiti. Sul davanti un puzzle di macchie, seccate dal tempo, davano la prima idea su ciò che mi aspettava da li a poco. Scesi, in silenzio, dall’auto, seguito dal monaco, mi avvicinai senza dire una parola, alla creatura, mi accovacciai davanti e la guardai negli occhi. Il mio sguardo fissò gli occhi “dell’angelo” ed in fondo, per la prima volta, ci vidi il nulla.
Lo sguardo fisso, privo di emozioni, di vita, di paura, di gioia. Un bambino senza amore è come il vento senza aria.
Il monaco continuava a parlarmi, ma ricordo poco dei suoi monologhi.

Era molto preoccupato del mio turbamento. Mi disse di non lasciarmi ingannare dell’apparenza, che quel bambino è sempre stato un po’ strano, che non ha mai amato la pulizia e l’ordine. Non risposi nulla. Cupo in volto seguii il monaco, che faceva strada e ci avvicinammo ad un “chiosco in mattoni”, all’interno del quale c’era una signora, l’usciera.
Con molto garbo chiese cosa desideravamo ed immediatamente contattò, col telefono interno, la direttrice. Ci dirigemmo verso l’ingresso, spingemmo una pesante vetrata zigrinata e salimmo gli otto gradini, per giungere nel salone, sul quale si affacciavano due scale monumentali in pietra, la prima saliva verso sinistra, la seconda verso destra. In mezzo si ergeva, in tutta la sua maestosità, la statua di Lenin, alta due metri e mezzo circa.
Il soffitto sarà stato a circa dieci metri dal pavimento. L’architetto, che aveva progettato quella struttura, doveva impressionare, con i suoi spazi, con i colori tetri e la sua maestosità, non solo i visitatori, ma anche coloro che, contro la loro volontà, erano costretti a quel “girone dantesco”.
A metà salone una piccola scrivania di legno, seduta dietro, una donna corpulenta, dall’aria minacciosa. Si tirò su con fatica e traballando si diresse verso di noi. Si avvicinò al monaco, gli prese la mano ed abbassò la testa. Il giovane monaco, gli impartì la benedizione, seguita da giaculatorie, a me incomprensibili. Il monaco la prese per il gomito e la invitò ad alzarsi. Comunicò alla donna il motivo della nostra visita, la quale immediatamente ci invitò, con atteggiamento servile, a seguirla.

Ci avvicinammo all’ascensore, presidiato da un’altra donna, seduta su una minuscola sedia: era l’addetta all’ascensore. Solo lei poteva manovrarlo e decidere se partire subito o aspettare alcuni minuti. Nessuno poteva influenzare le sue scelte. Arrivammo finalmente al terzo piano. Uscimmo e ci trovammo su un corridoio infinito, sul quale si affacciavano porte molto alte. Sembravano costruite apposta per dei giganti. Un’altra scrivania, un’altra persone, stavolta maschio e prestante. Altro interrogatorio, moduli da riempire, finalmente ci accompagna alla porta della direttrice. Ci fa accomodare nella prima stanza; altra scrivania, altra persona, donna, giovane, truccata pesantemente, con un tailleur bordò, dal taglio impreciso e troppo piccolo, per contenere “le sue misure teutoniche”.
Altro benvenuto, altra anticamera. La segretaria si alzò e scomparve dietro una porta pesante; dalla quale riapparve due minuti dopo e con un grande inchino ci invitò ad entrare. Quindici minuti e quattro controlli prima di incontrare colei che disponeva della gioia e dei dolori dei bambini.
Ero fortemente contrariato e teso da quel sistema “ a filtri”. Oltrepassiamo la porta e a circa dieci metri da noi, seduta dietro una imponente scrivania, incrocio lo sguardo di questa donna. Mi avvicinai con passo sicuro, mentre il mio sguardo “la forava” per l’irritazione. Si alzò in piedi e ci venne incontro, con un sorriso sibillino ed indisponente. Mi porse la mano, che baciai, ossequiandola.

Lei baciò la mano al monaco, il quale, a sua volta iniziò a benedirla e a recitare le giaculatorie di rito. Ci fece cenno di avvicinarci all’angolo salotto, e mentre camminavo, misurai mentalmente le dimensioni di quella stanza: sarà stata oltre 100 mq.
Questa donna aveva un ufficio grande quanto un appartamento occidentale, quando normalmente, gli uffici nei Paesi dell’est, non misurano più di 9 mq. per stanza.
Lei prese posto e ci invitò a fare altrettanto. Sul tavolino di legno un campanellino di ottone. Lo prese con due dita e lo fece suonare per alcuni istanti. Si affacciò la segretaria che si avvicinò in gran fretta. Ordinò del caffè, acqua, vodka, e sigarette. Il tono della direttrice era imperativo, la sventurata segretaria, rossa in volto, si congedò velocemente e si diresse verso l’uscita.
Io osservavo curioso questa donna “d’apparato”. Il monaco iniziò a spiegare i motivi della mia visita e chi fossi. Lei era apparentemente attenta al racconto, ben articolato di Pope Andrei, ma in realtà mi stava studiando con attenzione. Io la osservavo fissa negli occhi, senza fare un fiato. Mi resi subito conto che era di bell’aspetto, curata, vestiva un tailleur tinta avorio, di buona fattura, con gonna un dito sopra al ginocchio.

Le calze erano “occidentali”, le scarpe di buona fattura, in tinta con il tailleur e con la borsetta, poggiata sulla scrivania. Le mani erano splendide: dita affusolate, erano contornate da diversi anelli, alcuni dei quali mi sembrarono di pregio. Le unghie perfette, coperte da uno strato di smalto “rosso Ferrari”, si muovevano sinuosamente per assecondare le parole del monaco. Il viso era espressivo, femminile, dai lineamenti delicati. Gli occhi, stranamente scuri, fiammeggiavano alla luce dell’enorme lampadario appeso. I capelli, sulle spalle, incorniciavano quel volto, addolcendolo ulteriormente.
Accavallo le gambe, prese una sigaretta, le avvicinai la fiamma dell’accendino, mi guardò, mi ringraziò e si rilassò sul divano.
La segretaria entrò con un’altra signora, che teneva in equilibrio precario un vassoio ricolmo di bottiglie e bicchieri. Pregai perché non ci fosse un imprevisto in quel momento.

La segretaria rimase in piedi in attesa di disposizione, sembrava che il suo tailleur dovesse “esplodere” sul momento. La direttrice congedò entrambe e chiese di non essere disturbata per alcun motivo.
La direttrice, Valentina, iniziò a spiegarmi la storia infinita di quella “casa d’accoglienza” per minori. Mi spiegò che i minori non avevano ne genitori ne parenti e che lo Stato aveva a cuore il futuro delle nuove generazioni. Si lamentò per la mancanza di personale, dei fondi, del materiale didattico e dei salari del personale, insufficienti a garantire una vita dignitosa agli operatori. Mentre esplicitava questi temi, avevo notato che si era ammorbidita parecchio e mi guardava fissamente. Intuita l’antifona, mi mostrai d’accordo con lei su tutto e le espressi tutta la mia solidarietà. Detto questo, infilai la mano nella mia borsa, ne estrassi un pacchettino e glielo porsi. Era il regalo che avevo acquistato, previdente, prima di partire. La regola numero uno è pianificare il viaggio, pensando sempre all’imprevisto. La direttrice non riusciva a credere ai suoi occhi. Era sorpresa sinceramente. Le dissi di scartarlo, per verificare se era di suo gradimento oppure no.

Lo fece con grande trepidazione, senza fare attenzione a non scalfire le lunghe unghie smaltate. Quando aprì il cofanetto un’esclamazione stupefatta le rimase in gola, facendola rimanere con la bocca aperta. Gli occhi brillavano non di commozione, ma di cupidigia. Le lunghe dita affusolate tremavano nervosamente per l’emozione provata, nel vedere quel regalo italiano. Dopo alcuni secondi si riprese, poggiò il cofanetto sul tavolino, si alzò, feci altrettanto, si avvicinò e mi baciò sulla guancia. Per così poco? Le risposi. Lei rimase interdetta. Mi avvicinai e le restituii il “bacio di Giuda”.
Bene le parti si erano invertite. Ero consapevole che sarebbe stato tutto più facile, da quel momento in poi. Il monaco mi guardava soddisfatto, ma con un’espressione desolata. Soddisfatto perché egli avrebbe guadagnato punti agli occhi della donna, perché si fregiava come il mio miglior amico. Deluso perché anch’egli si aspettava un “cadou”. Io lo avevo messo in conto, ma egli non poteva saperlo.
Iniziai a lodare il lavoro della direttrice, la sua abnegazione, l’attenzione e l’amore dimostrato, a detta del monaco. Alla fine chiesi gelido di visitare tutti i piani dell’istituto. Un silenzio assordante scese nella stanza. Valentina rimase stupefatta, per la seconda volta, in pochi minuti. Io le sorrisi, la presi sottobraccio ed iniziai ad incamminarmi verso la porta, stringendola a me come un innamorato. Uscimmo, la segretaria scattò in piedi, l’usciere al piano si avvicinò ed il corteo si mise in moto. Iniziammo dall’alto. Un grande corridoio sul quale si affacciavano piccole stanze, con una piccola finestra; arredate con un lettino, un comodino ed una sedia. Alla parete l’attaccapanni.

I bagni e la cucinotta erano collettivi e posti in fondo al corridoio, le pareti scrostate dall’umidità e dalla mancanza di manutenzione. Le porte senza maniglie, i bagni vetusti, i lavandini instabili, i rubinetti gocciolanti, tutti gli ambienti erano malsani, per l’aria insalubre e per la mancanza assoluta di igiene, secondo il mio giudizio.
Il pavimento, di cemento, era ricoperto da linoleum tinta marmo, rotto in diversi punti e consumato dal continuo strofinio delle addette alle pulizia: due per piano.
Io continuavo a rimanere “aggrappato” saldamente al braccio sinistro della avvenente direttrice, per esercitare la pressione necessaria a continuare la visita dei piani. Scendendo a piedi continuai a visitare gli altri piani, con “infermeria”, corsia, lettini, bagni e così via. Inutile dire quale sia stata l’impressione raccapricciante nel vedere quelle cose. Il personale di ogni piano faceva a gara, per discolparsi da quella situazione. Essi avevano consapevolezza “dell’inadeguatezza” del reparto. I lettini dell’infermeria erano materassi buttati per terra, uno a fianco all’altro, nessun comodino, nessun lenzuolo, alcuni cuscini “putridi” senza fodera.
Rimasi impietrito di fronte a quell’orrore, ma non diedi a vederlo.

Scendemmo di un altro piano, sino a giungere ai dormitori dei ragazzi, posti nell’ala ovest della struttura (quella a sinistra, che avevo notato percorrendo il viale).
Il corteo di persone si era infittito; alcuni operatori, dopo aver parlato con me ed il monaco, si accodavano, rendendo quella visita, una parata d’altri tempi.
Aperta la porta d’ingresso, mi accorsi che se l’inferno è “un po’ più in giù”, quello era sicuramente l’anticamera.
Di fronte a me un salone immenso, con due file di lettini arrugginiti e sporchi, sui due lati.
Saranno stati circa cinquanta lettini per lato. Sulle reti metalliche mezze rotte, dei pagliericci, con imbottitura indefinita. Questi “materassi” erano sporchi, macchiati da qualsiasi sostanza organica, lenzuola grigie, sporche e strappate.
Sentii un brivido lungo la schiena, un tonfo al cuore e mi si gelò il sangue nelle vene.
Il lungo corteo di persone non era per niente turbato da quella visione, per loro quella era la normalità. Continuai a camminare con lo sguardo diritto in avanti, cercando di non offendere ulteriormente la mia sensibilità, la mia impotenza e la rabbia feroce, che nutrivo nei confronti dei responsabili di tale …. non so come definirlo.
Finalmente arrivammo alla porta. Non vedevo l’ora di uscire da quell’inferno. Un inserviente aprì la porta e le gambe mi cedettero quando vidi che oltre la porta non c’era l’uscita, ma un altro dormitorio, altrettanto grande, altrettanto sporco, squallido, inumano.

Anche gli occhi si rifiutavano di guardare tutti quei bambini sui lettini, chi sdraiato, chi seduto, chi si agitava freneticamente, gemendo di dolore.
Eccomi arrivato al fondo della vita, eccomi arrivato all’inferno, ed essere testimone delle afflizioni degli Angeli, colpevoli solo di essere nati, contro la loro volontà, in una parte del mondo, in cui la “coscienza dei diritti dei bambini” non era ancora sentita, vissuta, rispettata; come naturalmente ci si aspetta.
Quella visione infernale aveva paralizzato la mia anima, i miei sensi erano intorpiditi dallo sgomento che provavo, nel sentire tutta quella sofferenza, inascoltata dagli uomini, da Dio, dalla pubblica opinione. Gli accompagnatori parlavano, le loro parole erano un brusio lontano, prive di qualsiasi significato, di fronte a tale dramma. Camminavo lentamente, stordito, confuso, insicuro, impaurito, impotente. Ogni lettino con le sbarre laterali, conteneva il corpicino di un bambino. Bambini condannati al carcere duro, senza che loro potessero fare qualcosa, per cambiare la loro condizione di prigionieri di Stato. A loro non rimaneva altro che gemere malinconicamente la loro sofferenza al mondo intero, che sordo ed indifferente “aveva alzato un po’ di più lo stereo”, per non sentirli.

Piccoli volti sporchi e graffiati, tosati come animali, con indosso una veste-divisa di colore indefinibile. Le fragili braccina tremanti, si sporgevano verso di me, mentre dalle loro bocche usciva un lamento straziante. Gli occhi segnati da un pianto antico, da un infinito dolore, venuto alla luce insieme a loro. Alcuni di loro si grattavano freneticamente il corpo, ricoperto di crosticine e macchie di sangue. Altri rimanevano rannicchiati in un angolo del lettino- prigione, con lo sguardo perso nel nulla. Ogni passo che facevo, per andare avanti, mi costava una fatica immane. Le gambe non rispondevano, erano pesantissime, il corpo intorpidito, la testa che girava leggermente, lo stomaco contratto fino allo spasmo. Perché Dio ha riservato a me il dolore di visitare l’inferno da vivo? Perché “le genti” non provavano lo stesso orrore infinito che provavo io in quel momento? Io guardavo esterrefatto la direttrice dell’inferno e non vedevo in lei nessuna pietà e compassione per quegli orfani. Anche gli altri operatori camminavano, lentamente, dietro di noi, con noncuranza, quasi che, quello spettacolo, lo vedessi solo io.
Ancora oggi, la mia memoria , si rifiuta di far venire alla luce tutti i particolari di ogni bambino; i loro volti, la sofferenza di ognuno, la loro fisionomia, il loro sguardo implorante, i loro gemiti, gli sguardi vuoti, la ricerca di un volto amico, che non avevano mai visto, magari la ricerca istintiva di rivedere, in ogni visitatore, il padre, la madre, mai conosciuti.

Erano tutti uguali, non riuscivo a distinguere un bambino da una bambina. Lo Stato aveva attuato un progetto di spersonalizzazione, che non avrebbe lasciato scampo a quegli Angeli. Quello fu un momento durissimo per me, perché, per la prima volta nella mia vita sentii che sarei stato capace di uccidere, con le mie mani, i responsabili di quella tragedia e di altre tragedie simili, che ci sono state in altri Stati.
Mi trascinavo appesantito dalla sofferenza, espressa dagli occhi di ogni bambino che mi guardava implorante. Mi fermai davanti ad un lettino, vi era seduto un Angelo, con le braccia penzoloni, lo sguardo vitreo, le gambette ossute distese in avanti.
Mi avvicinai con delicatezza. Mi sedetti lentamente a fianco, senza dire una parola. Il bimbo non si accorse nemmeno della mia presenza. Il suo sguardo era fisso in avanti. Mi voltai lentamente per capire se guardava il nulla o se la sua attenzione era assorbita da un interesse. Segui con gli occhi la linea del suo sguardo ed i miei occhi si fermarono sul crocifisso appeso alla parete.
Il mio cuore piangeva disperato per quel bambino, per quei bambini, Angeli all’inferno.
La commozione inumidì i miei occhi, la mia mano si avvicinò, lentamente, al volto di quel bambino senza vita, senza futuro, senza amore, …senza pane.
Lo accarezzai con dolcezza, con tutto l’amore che potevo esprimergli in quel momento, con tutte le lacrime che, lentamente iniziarono a scendere sul mio volto, il dolore incommensurabile frantumò la mia anima in mille pezzi, provocandomi un dolore irreale. Piangendo il mio ed il loro dolore ne donai un pezzo ad ognuno. Quelli erano i miei figli, che io, padre snaturato, avevo abbandonato all’oblio, alla morte lenta e dolorosa, perché per me occidentale erano più importanti i simboli convenzionali della società capitalista in cui vivevo e vivo: auto di lusso, motoscafo, villa al mare, collaboratrici familiari, vestiti firmati, hotel di lusso, ristoranti esclusivi, vacanze da sogno, viaggi internazionali.

Io uomo occidentale, avrei mai rinunciato al denaro in più, a quel modello di vita, per assumermi la paternità putativa di quei figli?
Abbracciai teneramente quel bambino immobile, le lacrime si fecero più copiose, ma non mi preoccupava mostrarle, quello era il dolore di cui mi facevo carico. Quel luogo era molto amaro, quell’isitituto non era immerso nel verde, ma in un mare di dolore.
Tenevo a me delicatamente quel corpicino inanimato, la direttrice continuava a dire che quello era “un caso” compromesso irrimediabilmente. Io continuavo a tenere stretto, delicatamente a me quel bambino, dondolandolo dolcemente, perché papà era tornato e voleva che suo figlio lo sapesse. Svegliati Mihai, papà è tornato! Svegliati amore! Dobbiamo vivere, perché dopo la morte, tu devi tornare alla vita. Ero disperato, tutta quella sofferenza era troppa anche per me. Continuai a cullarlo dolcemente, guardando i suoi occhi spenti e lo baciai delicatamente sulla fronte.
Altri bambini e bambine, presero coraggio e, lentamente, iniziarono ad avvicinarsi al lettino. I loro sguardi erano tutti uguali, vuoti, spenti, senza vita. Sorrisi dolcemente ai miei Angeli e sussurrai loro “non piangete più angeli miei, papà è tornato e non vi lascerà mai più…

Cosa ho fatto, negli anni, non voglio dirlo, per riservatezza. Non è importante sapere quanto è costato restituire la vita a quei bambini, in termini di coinvolgimento personale ed economico. Quel che so e che la mia vita, da quel giorno, è cambiata e non ho rimpianti di alcun genere.
Una cosa la posso dire: Mihai oggi è un giovane avvocato.

Ho chiesto a molte madri, ad altri padri, di “tornare dai loro figli”, ma hanno continuato a disconoscerli, per non rinunciare ad un pezzo della loro vita.
Gianfranco
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