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critica formale del vangelo: (2)

Ultimo Aggiornamento: 15/05/2006 06:28
14/05/2006 17:43
 
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Da "Il Gallo Cantò ancora" di Karlheinz Deschner
I Vangeli e il loro retroterra storico-culturale
3. LA NASCITA DEL VANGELO PIÙ ANTICO E LA MOLTIPLICAZIONE DELLE EDIZIONI AMPLIATE E MIGLIORATE DI MATTEO E DI LUCA

... ben poco interessati alla storia
(Il teologo Dibelius)

... solo una collazione aneddotica
(Il teologo Werner)

... da utilizzare con estrema circospezione
(Il teologo Goguel) 1
Ci serviamo dei nomi di Marco, di Matteo e di Luca come autori dei Vangeli Sinottici, senza sapere con esattezza se Marco si identifichi col compagno di Pietro, e Luca con l'accompagnatore di Paolo. Infatti, fatta eccezione per le epistole paoline autentiche, non possediamo certezze sull'autore di nessuno degli scritti neotestamentari.

La Chiesa ha fatto passare questi libri come opera dei primi Apostoli e dei loro discepoli, gettando così le fondamenta della loro autorità. In realtà, essi non derivano dall'attività di nessun apostolo. Neppure il pubblicano Matteo può essere l'autore del cosiddetto Vangelo di Matteo, in quanto l'opera non venne composta in ebraico, secondo la tesi della più antica tradizione ecclesiastica 2 , bensì in greco; e inoltre non può risalire a un testimone oculare. Questa è la posizione di quasi tutta l'esegetica biblica non-cattolica, mentre la Chiesa cattolica attribuisce questo vangelo all'apostolo Matteo; ma anche i suoi esegeti sono costretti ad ammettere che non si conosce nessuno che abbia mai visto il presunto originale aramaico, tradotto poi in greco e che non esistono tracce di alcun genere del testo aramaico né di sue citazioni (Winkenhauser, 133).

Ma le successive generazioni cristiane collocarono tutto ciò che poterono sotto il manto protettivo degli Apostoli, al fine di conferire alle scritture una maggiore autorevolezza. Il che, per altro, corrisponde a un'abitudine letteraria tipica dell'antichità, e raramente si è trattato di consapevole falsificazione, quantunque sia necessario richiamare l'attenzione sul fatto che

Nel Cristianesimo è consentito l'inganno in nome e in onore di Dio

Il Cristo, questa ultima ratio della menzogna, è ancora una volta l'ebreo-tre volte se stesso.
(Friedrich Nietzsche, Der Antichrist, 44)

Le falsificazioni hanno inizio in epoca neotestamentaria, e non sono più cessate.
(Il teologo Carl Schneider) 3

In nessun campo si sono verificati tanti falsi, quanti in ambito religioso, e nel Cristianesimo sono forse ancor più numerosi: è l'arte sacra della menzogna, come afferma Nietzsche. Il pio inganno, col quale si imbrogliano generazioni e intere epoche storiche, nel Cristianesimo, anche ad avviso del teologo Johann Gottfried Herder, «ben presto non fu più un peccato, ma una benemerenza a onore di Dio e per la salute dell'anima 4.

I suoi più autorevoli esponenti consolidarono con la bugia la verità cristiana, e nemmeno Paolo si sottrae a questo sospetto, quando scrive:

«Ma se ad opera della mia menzogna (!) tanto più rifulge la gloria di Dio, perché mai dovrei ancora essere giudicato un peccatore?» (Rom. 3, 7).
Anzi, egli ammette che solo una cosa è importante: diffondere Cristo «con o senza ipocrisie» (Philip. 1, 15 sgg.). Anche se Paolo in questo passo non rivendica a se stesso tali ipocrisie - anzi altrove sottolinea più di una volta la propria schiettezza, (Rom. 9, 1; 2 Cor. 4, 2 ecc.) - molti luoghi delle sue Epistole suscitano perplessità 5, benché taluni studiosi conservatori giudichino errata l'immagine tradizionale dell'Apostolo come polemista, che non va tanto per il sottile con la verità, perché «non è coerente» 6.

Il dottore della chiesa Giovanni Crisostomo (= Bocca d'oro), patrono dei predicatori, intervenne assai più energicamente a pro della necessità della menzogna diretta alla salute dell'anima, appoggiandosi persino su esempi tratti dal Vecchio e dal Nuovo Testamento 7.

Ma anche Origene, uno dei più eminenti e autorevoli cristiani dell'antichità, sostenne con ferma decisione la liceità dell'inganno e della menzogna come «strumenti di salvezza». Dio stesso, secondo lui, potrebbe mentire per amore (Orig. Cels. 4, 19).

Come in tutta l'antichità, dunque, anche nel Cristianesimo il «pio imbroglio» fu lecito fin dal principio; così agli apostoli Matteo e Giovanni vennero attribuiti a torto dei Vangeli; non solo, ma venne inventato di sana pianta anche un Vangelo «secondo i 12 Apostoli», in modo da ottenere i migliori attestati di credibilità, coinvolgendo tutta la santa congrega. Al solo Pietro vennero attribuiti un Vangelo, un'Apocalisse, il Kerygma e due Epistole del N.T., che oggi anche teologi di parte cattolica gli disconoscono, limitandosi a concedere che la Prima Epistola non può essere stata composta da lui senza un aiuto esterno, dato che non sarebbe stato capace di scrivere in un greco così elegante (Winkenhauser, 364), ma ammettendo senza obiezioni l'inautenticità della Seconda. Il suo autore avrebbe «preso in prestito» il nome di Pietro per conferire allo scritto (composto, per altro, quasi un secolo dopo la morte dell'Apostolo) una più elevata dignità, prassi comunemente ammessa dalle usanze letterarie del tempo (ibid., 372 sg.).

Tali consuetudini, però, permisero di apporre anche ad altre Epistole neotestamentarie i nomi dei primi apostoli Giacomo e Giovanni, che non ne erano gli autori; e di assegnare a Paolo le Epistole a Timoteo e a Tito, da lui mai scritte. Anche la Didaché o Dottrina dei 12 Apostoli, la cui riscoperta nel 1883 destò scalpore a livello internazionale, si presenta come l'insegnamento del Signore attraverso i 12 Apostoli, quantunque composta nel secondo secolo, come viene universalmente riconosciuto. E anche la Didaskalia siriaca è un regolamento ecclesiale del terzo secolo, ma si volle gabellarla come redatta dagli Apostoli durante il Concilio di Gerusalemme.

Sia consentito ancora un ultimo esempio delle consuetudini della storiografia antica: esse permisero al redattore degli Atti degli Apostoli di inventare tutti i discorsi in essa contenuti, i quali vanno senza alcun dubbio addebitati al compilatore non solo per la forma spesso abbreviata oggi a nostra disposizione (come si evince anche dalla loro durata di appena due minuti), ma anche per il contenuto concettuale, che esclude ogni possibilità di attribuzione all'autore degli Atti degli Apostoli 8. Egli fece uso, piuttosto, di quell'antico privilegio storiografico, ponendo sulla bocca dei suoi «eroi» predicazioni appropriate 9.

Ciò viene dimostrato inequivocabilmente già dal primo discorso di Pietro, il suo esordio: se diamo credito alla Bibbia, il suo intervento durò circa un minuto, limitandosi poi a raccontare, come dice esplicitamente, quel che tutti già sapevano: l'orribile fine di Giuda. E Pietro, da ebreo che si rivolge ad altri ebrei, dice:

«Ciò è ben noto a tutti gli abitanti di Gerusalemme, tanto che quel campo nella loro lingua ha mantenuto il nome di Hakeldamach, vale a dire Campo del sangue» (Atti 1, 19).
Ovviamente Pietro non può essersi espresso in questi termini; qui sta parlando l'autore, che informa i suoi lettori stranieri.

Dev'essere sottolineato che questi discorsi fittizi costituiscono circa un terzo degli Atti degli Apostoli, che ne rappresentano la materia teologica decisamente più rilevante, e che, infine, dal suo autore, il quale si identifica con il redattore del Vangelo di Luca (come viene generalmente ammesso) deriva più di un quarto del Nuovo Testamento.

Un rapido sguardo al Vecchio Testamento

E l'autenticità del Vecchio Testamento?

Nonostante gli studi abbiano da tempo dimostrato che, ad esempio, il Pentateuco, i cosiddetti Cinque Libri di Mosè, non possono essere di Mosè 10 (come riconosceva già Spinoza), la Chiesa cattolica insiste sulla sua paternità. Ma le parti più antiche di questi libri, talune sezioni dell'Esodo, giungono fino al IX secolo, mentre Mosè visse nel XIII o XIV secolo - anche ammesso che la sua figura sia storicamente attendibile, il che viene negato da non pochi studiosi moderni 11. A ogni modo, di lui non sono state tramandate testimonianze autentiche.

Contro la composizione del Pentateuco ad opera di Mosè depongono, per altro, alcuni toponimi nati certamente in epoca postmosaica (Bertholet, 322). La compilazione da parte di un solo autore è contraddetta, inoltre, da varie incongruenze, quali la definizione della durata del diluvio, che passa da 40 a 150 giorni, nonché da molti doppioni, come le due narrazioni della creazione, la duplice proibizione alimentare, il doppio Decalogo e altri passi. L'origine del Decalogo, i Dieci Comandamenti, che Dio avrebbe fatto avere a Mosè, viene posta dalla letteratura specialistica almeno mezzo millennio dopo la sua vita presunta, se non ancora più tardi 12. Parti consistenti del Pentateuco, non meno di circa 60 capp. del Secondo, Terzo, Quarto Libro, attribuiti a Mosè, vissuto presumibilmente nel XIII o XIV secolo a.C., furono prodotti o collazionati da sacerdoti ebrei addirittura dopo il sec. V 13. Allo stesso modo, scritti risalenti al II e al I secolo a. C. furono attribuiti a Davide o a suo figlio Salomone, benché costoro siano vissuti quasi un millennio prima, precisamente nel sec. X.

Quali furono i presupposti dei Vangeli?

Anche i Vangeli furono tramandati anonimi e solo in un secondo momento la Chiesa attribuì loro i nomi degli autori. Il più antico, nato forse a Roma presumibilmente fra il 70 e l'80 14, avrebbe avuto come autore Giovanni Marco, il compagno di Pietro; tesi sostenuta, invero, per la prima volta da Papias di Ierapoli nel 140 15. Il vescovo Papias dichiara anche, però, che Marco non avrebbe personalmente ascoltato Gesù, ma si sarebbe limitato a trascriverne gli insegnamenti, basandosi sul ricordo delle narrazioni di Pietro, certamente, com'è ovvio, dopo la sua morte 16.

Chiunque sia stato, in ogni caso, l'autore di questo Vangelo più antico, egli non fu un testimone oculare. E a questo punto ci imbattiamo in un fatto di primaria importanza, cioè che all'inizio della tradizione su Gesù si trova non la scrittura, ma l'oralità; non il Vangelo, bensì una decennale tradizione orale; dunque non siamo in possesso della dottrina di Gesù senza mediazioni, ma puramente e semplicemente di informazioni che la concernono. Secondo un punto di vista universalmente accolto, la cristianità palestinese più antica non trascrisse nemmeno una parola di Gesù: la persona storica, il «Cristo secondo la carne», come testimonia anche Paolo (2 Cor. 5, 16), non attirò affatto il loro interesse: essa attendeva il ritorno del Signore.

E in principio mancò anche una storia orale coerente dell'opera di Gesù. La trasmissione letteralmente fedele di un racconto complesso è esclusa in una tradizione orale popolaresca, anche presso gli orientali, i quali dimostrano indubbiamente un certo grado di perfezione nella trasmissione di narrazioni non-scritte. È presumibile, piuttosto, che in un primo momento, dopo la morte di Gesù circolassero singoli frammenti, piccole unità narrative, parabole, massime o gruppi di massime, storie isolate, che in seguito vennero ricomposte e accorpate come in un mosaico. Ciò è dimostrato dalla moderna critica storico-formale dei Vangeli, che qui non è possibile trattare nei dettagli.

I «discorsi» evangelici, della Montagna, della Missione degli Apostoli ecc. non furono mai pronunciati da Gesù in questo modo; gli Evangelisti li hanno collazionati, attingendo al patrimonio di massime più antico o - come dice un teologo (Jülicher, 55), che vorrebbe evitare il termine «falsificazione», benché formalmente appropriato - «esso stesso composto da frammenti d'ogni sorta». Nel Discorso di Gesù in Matteo, anche uno studioso cattolico (Wikenhauser, 133) scorge solo «composizioni letterarie». Delle massime del Discorso della montagna, ad esempio, non si sa né a chi fossero state originariamente indirizzate né in quale occasione fossero state pronunciate 17.

Fu Matteo a metterle per la prima volta insieme nella forma a noi tramandata (Mt. 5, 3-7, 27). Dei 107 versetti che compongono in Matteo il Discorso della montagna, Luca, che non ha il minimo sentore della sua esistenza, riporta 27 versetti nel capitolo 6, 12 nell'11, 14 nel 12, 3 nel 13, 1 nel 14, 3 nel 16; 47 versetti sono del tutto assenti 18. Il Discorso della montagna manca completamente sia in Marco che in Giovanni.

Il patrimonio delle tradizioni alla base dei Vangeli non venne tramandato inalterato nei decenni intercorsi fra la morte di Gesù e la redazione del Vangelo più antico, perché nel frattempo la memoria di Gesù, com'è naturale, si trasformò in leggenda popolare 19 e certe esagerazioni e una più ampia esaltazione della sua figura non possono non essersi verificate. Tale fenomeno avrà avuto inizio già nei primissimi tempi: in realtà, è innegabile che qualsiasi tradizione orale soggiaccia a leggi evolutive universali, a un «movimento», vale a dire a un mutamento, a una variazione, e che una trasmissione diluita nel tempo modifichi necessariamente la narrazione da un giorno all'altro, e più che mai nel corso di molti anni. Un'azione riplasmatrice avviene a causa del temperamento dell'emittente, il quale svolge un ruolo meramente passivo solo in casi eccezionali. Il che vale specialmente per gli uomini di quell'epoca, caratterizzata dalla superstizione e da una religiosità esaltata, e ancor più per i primi cristiani che, provenienti dagli strati più bassi della popolazione, erano assolutamente ingenui e privi di spirito critico (Goguel, 96).

La figura di Gesù assunse tratti sempre più idealizzati nei Vangeli più recenti, tanto più, poi, che essa era già stata ingigantita dalla collettività primitiva dei cristiani ancor prima di Marco, adattata, per dirla col teologo Leipoldt, «non di rado ai bisogni e alle attese della comunità» (Jesus u. Paulus, 9). Un altro teologo, Knopf, aggiunge che immediatamente dopo la morte di Gesù «si disse tutto il bene possibile... e una parte di tali asserzioni venne espressa già da coloro che lo avevano visto e conosciuto» (Einführungen, 309). E così, come scrive il teologo Pfannmüller (30), la sua immagine venne già «modificata nei tratti essenziali nei Vangeli in nostro possesso», ovvero, come si esprime il teologo Hirsch, «fu fantasiosamente esaltata» 20.

Gli Evangelisti non descrissero Gesù quale fu, ma, come sostiene il teologo Jülicher, «quale i bisogni dei fedeli desideravano che fosse» (355).

Conseguenza logica di tale evoluzione fu in un primo tempo la diffusione frammentaria di racconti intorno a Gesù da parte di predicatori a mero scopo edificante,e in un secondo tempo la raccolta di questi florilegi ad opera degli Evangelisti.

Come operò il più antico Evangelista?

Sembra che il primo a intraprendere la raccolta organica delle narrazioni intorno a Gesù, precedentemente isolate e frammentarie, sia stato l'autore del Vangelo di Marco. Resta sub iudice il problema se abbia lavorato su un ciclo più antico di racconti, il cosiddetto UrMarkus, come ipotizzano alcuni studiosi 21; in ogni caso Marco, o chiunque si celi dietro questo nome, è il primo degli Evangelisti a noi noti 22.

Ma la sua priorità non sempre fu riconosciuta: a partire da Agostino (De consensu Evangelistarum 1, 2) la Chiesa considerò il Vangelo di Marco un semplice estratto del Vangelo di Matteo, ritenuto più antico, e tale opinione errata dominò per più di 1500 anni, allorché per la prima volta nel 1835 il filologo Karl Lachmann sostenne la priorità di Marco e la sua utilizzazione da parte di Luca e di Matteo 23, e tre anni dopo il filosofo Christian Hermann Weiße e il teologo Christian Gottlieb Wilke, indipendentemente l'uno dall'altro, ne dimostrarono la fondatezza 24.

Dunque, il processo vero e proprio di elaborazione letteraria nel Cristianesimo ebbe inizio con Marco, ma il suo Vangelo non venne trascritto d'un tratto, bensì fu collazionato sulla base degli aneddoti diffusi sulla vita di Gesù. Tuttavia, questo scrittore non si limitò a raccogliere e ordinare il materiale come lo trovò, ma creò il quadro globale della storia evangelica. Infatti era perlopiù ignorato, com'è ovvio, in quale precisa occasione potesse essere stato pronunciato un certo motto del Signore, perché il quando interessava ben poco e anche il dove era spesso incerto. E così Marco raggruppò secondo un criterio personale il materiale narrativo a disposizione, rielaborandolo e completandolo, colmando le lacune delle componenti tradizionali mediante osservazioni circostanziate e narrazioni specifiche inventate, e dando vita in tal modo a una topografia apparentemente sicura e a un racconto cronologicamente ordinato. Ma il patrimonio della tradizione, ed è questo l'aspetto più importante, attraverso la sua rielaborazione venne collocato in una visuale determinata, come fecero poi anche Matteo e Luca, per cui ogni evangelista fu autorizzato a darne una interpretazione differenziata.

Già in Marco, però, è singolare il fatto che, per dirla con uno dei più eminenti studiosi moderni della Bibbia, il teologo Martin Dibelius, manchi «qualsiasi traccia di ricordo personale» 25. I primissimi resoconti cristiani non hanno «conservato alcun materiale biografico degno di tale nome» 26. Se adesso ci domandiamo quale sia stato il rapporto del Vangelo di Marco con quelli di Matteo e di Luca, ci imbattiamo nella cosiddetta

Teoria delle due fonti

La teoria della duplicità delle fonti [Zwei-Quellen-Theorie], elaborata per circa un secolo dalla scienza specialistica, oggi viene pressoché universalmente riconosciuta e accreditata (naturalmente, non da parte dei cattolici). Sulla scorta di tale teoria 27, Marco fu la fonte di Matteo, cui la Chiesa cattolica attribuisce la priorità cronologica, e di Luca: il Vangelo di Matteo, composto da 1068 versetti, ne attinse circa 620 dal Vangelo di Marco, composto a sua volta da 661 versetti 28; e il Vangelo di Luca, 1149 versetti, ne prese da Marco circa 350.

Le concordanze dei tre Vangeli derivano, dunque, dalla comune dipendenza di Matteo e di Luca da Marco. Essi possiedono la medesima successione di eventi e numerose espressioni suonano pressoché identiche: si tratta di un'affinità, che spesso riguarda anche i dettagli più insignificanti.

E che ciò non sia il risultato d'un'ispirazione divina dimostrano parecchie divergenze e gravissime contraddizioni concrete. Limitiamoci, per ora, ad accennarne alcune: le narrazioni concernenti l'infanzia sono inconciliabili in Matteo e in Luca: in Matteo il domicilio della famiglia di Gesù è Betlemme, in Luca Nazareth; il racconto della fuga in Egitto e la visita dei Magi d'Oriente fatto da Matteo non concorda con quello di Luca; gli alberi genealogici di Gesù si contraddicono grossolanamente, e nelle descrizioni della sua attività pubblica riscontriamo differenze a ogni passo, come sono costretti ad ammettere anche teologi tradizionalisti (Feine-Behm).

Matteo e Luca, inoltre, non utilizzano solo l'opera di Marco, ma anche una raccolta di detti di Gesù, che gli studiosi indicano con la sigla Q (Quelle) e che pare relativamente attendibile circa la dottrina di Gesù, ma che non esiste ormai più. Si tratta di un riferimento meramente ipotetico, che è possibile evincere approssimativamente dai passi comuni a Matteo e a Luca non presenti in Marco (circa 235 versetti). Ma a giudizio della teologia critica, neanche questa raccolta così attendibile, ma purtroppo solo ipotetica, di frasi di Gesù, composta, secondo la maggior parte degli studiosi, ancor prima del Vangelo più antico, intorno al 60/70, venne redatta con intenti ispirati a un autentico interesse storiografico 29. Né sono mancati coloro che hanno contestato l'esistenza di questa fonte scritta 30.

E infine, Matteo e Luca presentano ciascuno talvolta un materiale narrativo specifico, esclusivo di ognuno di essi: in Matteo (1068 versetti) esso comprende circa 330 versetti, in Luca (1149 versetti) circa 550, la cui provenienza rimane sconosciuta agli studiosi: ciò può basarsi sulla tradizione, ma potrebbe anche essere un'invenzione propria degli Evangelisti stessi.

È questa la soluzione, elaborata da generazioni di studiosi e riconosciuta quasi universalmente, del problema estremamente complesso della Sinossi. Siamo costretti a rinunciare all'analisi di altre ipotesi meno convincenti e fondate.

In seguito alla dipendenza inequivocabilmente dimostrata dei Vangeli più recenti, di quelle edizioni accresciute e corrette, come dice il teologo Lietzmann (Geschichte der alten Kirche, 2, 61), è possibile, in ogni caso, stabilire esattamente le modifiche, le aggiunte, le omissioni, i ritocchi subiti dal testo di Marco ad opera di Matteo e di Luca. Non sarà difficile mostrare che tali correzioni non dipendono solo dal miglioramento dello stile e della grammatica, coi quali Marco aveva il suo bel daffare, ma da precise scelte interpretative.





4. LA DIVINIZZAZIONE DI GESÙ OVVERO IN CHE MODO MATTEO E LUCA PERFEZIONARONO IL PIÙ ANTICO TESTO DI MARCO

Abbiamo appreso a ben distinguere tra il Figlio di Dio del Vangelo di Giovanni e della teologia sinottica, e l'uomo Gesù, il Maestro messianico, taumaturgo e profeta, quale viene delineato dagli strati più antichi della tradizione.
(Il teologo Windisch)

Il processo di divinizzazione di Gesù, chiaramente individuabile nel Nuovo Testamento, un tempo, in modo assolutamente semplicistico, veniva così formulato: il più antico Evangelista descrive un uomo, i Vangeli più recenti di Matteo e Luca delineano in singoli passi una sorta di semidio, il Vangelo canonico più recente e i Vangeli Apocrifi successivi un dio, che solo esteriormente appare come un uomo (D. Nielsen, 37).

Tale evoluzione è piuttosto grossolana, giacché anche nel Vangelo più antico la distanza dalla figura storica è stata accuratamente accresciuta dalla tradizione orale e dagli interventi dell'autore, e Gesù non compare semplicemente come profeta, bensì come il misterioso Figlio di Dio; il che non era nulla di nuovo, se è vero che nell'antichità molti personaggi sono apparsi sulla scena come dèi o figli di dio e venerati anche come tali 1. Già nel V.T. gli Angeli venivano definiti «figli di Dio» 2, ma il titolo di «figlio di Dio» è attestato anche per figure storiche come Pitagora, Platone, Augusto, Apollonio di Tiana e altri 3.

Gli Evangelisti contrappongono a tutti questi «figli di dio» il loro «Figlio di Dio», anche se Marco si serve ancora piuttosto raramente di questa espressione: per due volte la usa una voce proveniente dal cielo, altre due volte se ne servono gli spiriti maligni (Mc. 1, 11; 9, 7; 3, 11; 5, 7); e infine si trova in una lezione assai sospetta del primo versetto del Vangelo e nella confessione del centurione sotto la croce: «In verità, quest'uomo è stato il figlio di Dio» (Mc. 15, 39). Una frase della cui autenticità dubitano tutti i teologi critici, anche per il fatto che la conversione del boia era un motivo letterario diffuso, che trova riscontri anche nelle cronache sui martiri ebrei 4.

In ogni caso, pur prescindendo da queste definizioni nel complesso piuttosto dubbie, in Marco, Gesù - chiamato undici volte «Maestro» e tre volte «Rabbi» - non viene mai concepito affatto preesistente e identico a Dio, come accadrà nel dogma elaborato successivamente.

Nel Vangelo di Marco Gesù non è onnipotente,
né onnisciente né assolutamente buono

Non è onnipotente, perché Marco ci informa che a Nazareth Gesù «non poté compiere alcun miracolo»; è vero che l'Evangelista attenua la sua affermazione soggiungendo subito dopo: «ad eccezione di alcuni malati, che guarì con l'imposizione delle mani», ma già in Matteo avviene la correzione «non molti miracoli» 5. Sempre in Marco, Gesù non è nemmeno onnisciente: infatti, dice chiaramente a proposito del giorno del Giudizio, che nessuno ne conosce il momento preciso, ad eccezione di Dio, «neppure il Figlio» (Mc. 13, 32; anche 13, 30). Tale espressione rivelatrice si trova anche in Matteo (Mt. 24, 36), ma certamente non per caso essa manca in una serie di importanti manoscritti del Vangelo di Matteo, e Luca la tralascia del tutto. Ai Padri della Chiesa del IV secolo, invece, l'ignoranza di Gesù apparve tanto funesta, che, contro l'evidenza testuale della Bibbia, la negarono tout court 6, la considerarono un falso (Ambros. De fide, 5, 8 ) o la stravolsero del tutto (Basil. Ep. 236, 2).

Sempre a questo riguardo sia consentito accennare al fatto che Matteo omette parecchie domande di Gesù. In Marco Gesù domanda allo spirito dell'ossesso: «Come ti chiami?», e in occasione del pasto dei Cinquemila chiede: «Quanti pani abbiamo?», «quanti cesti pieni di tozzi avete raccolto?»; e nella guarigione di un fanciullo: «Per quanto tempo ha patito di questo male?». Ma tutte queste e altre domande vengono sistematicamente soppresse da Matteo 7.

E infine, Gesù in Marco non è assolutamente buono, perché a un ricco che lo definisce «buono» risponde: «Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, soltanto Dio» (Mc. 10, 18 ). Gesù, dunque, non pensa affatto di equipararsi a Dio. Però Matteo, che scrive dopo, corregge Marco in modo maldestro, ma in vista del futuro dogma, facendo dire a Gesù: «Perché mi interroghi su ciò che è buono? Uno solo è buono» (Mt. 19, 17).

I due padri di Gesù

Dal seme di Davide, certo, ma anche dallo Spirito Santo.
(Ignazio di Antiochia) 8
La maggior parte degli antichi uomini/dèi o discendevano direttamente da un dio oppure da una stirpe regale, che riconduceva la propria radice a una divinità 9.

Ai tratti caratteristici tradizionali dell'idea messianica ebraica apparteneva la discendenza dalla casa di Re Davide 10. Per questa ragione Matteo e Luca fanno nascere Gesù non a Nazareth, ma a Betlemme, in Giudea, perché ivi aveva la sua dimora la famiglia di Davide 11. Nel Vangelo di Giovanni (7, 41) si dice espressamente:

«Ma Cristo non viene dalla Galilea?! Forse che la Scrittura non dice che Cristo verrà dal seme di Davide e dal villaggio di Betlemme, dove ha abitato Davide?».
Marco di un simile adattamento alle aspettazioni messianiche degli ebrei non sapeva ancora nulla: vi fu inserito dagli Evangelisti più recenti.

Ma nella loro invenzione postuma della discendenza di Gesù dalla casa di Davide raccontata in due genealogie concernenti Giuseppe, si dimenticarono, per altro, che il padre di Gesù non era Giuseppe, ma lo Spirito Santo, per cui Gesù non poteva avere nessuna relazione con la stirpe di Davide! «Dal seme di Davide, certo, ma anche dallo Spirito Santo», filosofeggiava un po' perplesso, ma pieno di fede, il vescovo Ignazio nel II secolo (Ign. Ephes. 18, 2). Probabilmente le cose sono andate così: era già diffusa la fede in Gesù come Messia e, conseguentemente, nella sua discendenza da Davide, allorché si impose la credenza nell'Immacolata Concezione e nel suo essere il Figlio di Dio; ed ecco che Gesù si trovò ad essere figlio di Davide, attraverso Giuseppe, secondo la tradizione più antica, e figlio dello Spirito Santo, attraverso Maria, secondo quella più recente.

La tesi della Chiesa cattolica, secondo la quale Maria sarebbe una discendente di Davide, il cui albero genealogico viene riportato da Luca, è in contraddizione col testo scritturale, non solo, ma contraddice anche il principio per cui non si elencava la parentela materna, essendo determinante secondo la concezione giuridica ebraica esclusivamente la discendenza maschile 12. Entrambe le genealogie di Gesù si riconducono chiaramente a Giuseppe, e tutti i tentativi di conciliare le due cose sono condannati al fallimento 13. Persino un cattolico (Daniel-Rops), per altro assai poco imbarazzato dall'escogitazione di pretesti d'ogni sorta, dopo una serie di fumosi salti mortali, ammette che «è impossibile costruire una genealogia, che unisca la madre di Gesù con Davide» (Jesus, 126 sgg.).

Gli alberi genealogici di Gesù in Matteo e Luca:
lungo un intero millennio solo due nomi coincidono!

Le due genealogie, quella di Matteo, che giunge fino ad Abramo, e quella di Luca che arriva addirittura ad Adamo, sono totalmente diverse: da Abramo a Gesù Luca conta 56 generazioni, Matteo 42; il padre di Giuseppe, cioè il nonno di Gesù, in Matteo si chiama «Giacobbe», in Luca «Eli» 14. Da Giuseppe a Davide, pur sempre un millennio, i due alberi genealogici hanno in comune solo due nomi!

E già nell'antichità non pochi cristiani ne rimasero profondamente confusi 15, sì che molti cercarono di eliminare queste difficoltà a tutti i costi (Hennecke, 110). Altri, come Gregorio Nazianzeno, le trasfigurarono poeticamente; altri ancora non si peritarono di ricorrere alle falsificazioni: nelle Bibbie più antiche fu proprio l'albero genealogico di Gesù a subire molte correzioni 16. Per l'autore dell'importante manoscritto D, l'inconciliabilità delle due genealogie era talmente evidente, che inserì, sic et simpliciter, l'albero genealogico di Matteo nel Vangelo di Luca (Klostermann, op. cit., 3).

Un cattolico (Schelkle, 28 ) fa una divertente constatazione (anche nel linguaggio):

«I due Evangelisti non si sono letti reciprocamente, e proprio i loro alberi genealogici non si conoscono l'un l'altro, altrimenti non avrebbero simili differenze nei nomi».
Ma poiché, secondo il nostro esperto, gli alberi genealogici sono da un lato una parte importante della parola di Dio, e dall'altra gli Evangelisti, come insegna l'Enciclica di Leone XIII Providentissimus Deus, «esprimono con infallibile veridicità tutto ciò che Dio ha ordinato loro di scrivere e soltanto quello», ebbene, a questo punto qualcuno dev'essersi sbagliato (ibidem, 28 sg., 32)!

Nel Vangelo più antico Gesù viene adottato quale figlio di Dio solo nel Battesimo

Per l'innalzamento della figura di Gesù è significativo anche che Marco faccia decorrere il suo essere figlio di Dio solo a partire dal suo battesimo, mentre in Matteo egli viene già generato da una vergine quale bambino divino, e in Luca Giovanni il Battista venera Gesù quando è ancora nel seno materno (Lc. 1, 40 sgg.).

Gli studiosi considerano il Battesimo di Gesù ad opera di Giovanni il Battista come una delle date meglio attestate della sua vita, eppure non manca chi la mette in discussione 17, perché, a dire il vero, i racconti evangelici dell'evento sono assolutamente leggendari 18, e la notizia più antica del Battesimo fu quasi interamente presa dal V.T., soprattutto da Isaia (cfr. Mc. 1, 10 sg. con Jes. 11, 2; 42, 1 sg.; 63, 15, 19. Cfr. anche Ps. 2, 7. Hes. 1, 1). Evidentemente questa narrazione, nella quale lo Spirito di Dio discende su Gesù sotto forma di colomba, è un calco delle antiche saghe d'investitura, dell'elezione del re mediante gli uccelli, la cui discesa indica con chiarezza colui che viene prescelto 19. Inoltre presso Siri e Fenici la colomba era il simbolo della divinità protettrice della generazione, gli antichi teologi ebrei immaginavano lo Spirito di Dio come una colomba e consideravano la sua voce nel Cantico dei Cantici come la voce dello Spirito Santo 20. Già prima del Gesù sinottico, le colombe aleggiavano sopra le teste dei monarchi egiziani e anche dopo, in occasioni analoghe, compariranno delle colombe.

Comunque, la leggenda marciana mostra in modo chiarissimo che per i primi seguaci Gesù non è né Figlio di Dio né Dio, poiché solo con la discesa dello Spirito divino (il senso della storia è, in fondo, questo) Gesù viene innalzato a Figlio di Dio. Se lo fosse già stato, la ricezione dello Spirito divino sarebbe stata superflua. «E subito lo Spirito lo sospinse nel deserto» (Mc. 1, 12), racconta l'Evangelista, e non poteva esprimere in modo più evidente quanto reale e immediato fosse per lui il rapporto fra l'accoglimento dello Spirito e l'inizio dell'attività spirituale di Gesù: nel Vangelo più antico egli viene adottato come Figlio di Dio soltanto all'inizio della sua attività pubblica 21.

A questo punto siamo in grado di renderci conto di come il senso del suo battesimo venisse immediatamente stravolto e come l'immagine di Cristo fosse stata ingigantita già da Matteo.

Marco ci informa del battesimo di Gesù ad opera di Giovanni, atto sul quale molti cristiani cominciarono già da allora a stillarsi il cervello 22, e non perché quasi tutti gli intellettuali ebrei hanno ritenuto pazzo il Battista (Mt. 11, 18; Lc. 7, 33), ma perché il suo battesimo era di carattere espiatorio in vista della remissione dei peccati. Il fatto, quindi, che sia impartito a Gesù, che secondo la dottrina della Chiesa è assolutamente senza colpe (nel Cristianesimo primitivo, a dire il vero, ciò venne spesso messo in dubbio o contestato) 23, presuppone in lui la consapevolezza del peccato.

E tale argomentazione, infatti, fu ben presto apertamente usata dagli ebrei contro i cristiani, sicché già Matteo si vide costretto a tentarne una giustificazione, inserendo nella candida informazione fornita da Marco un dialogo teso a dimostrare che il Battista era perfettamente consapevole dell'innocenza di Gesù: «Io dovrei essere battezzato da te, e tu vieni da me?», ma Gesù gli rispose: «Lascia che ciò accada, per ora» 24. E Giovanni cede, anche se controvoglia. E benché si sia aperto il cielo, sia disceso lo Spirito Santo e una voce abbia proclamato Gesù il figlio prediletto, otto capitoli dopo, in carcere, Giovanni ha totalmente dimenticato questo notevolissimo evento, a tal punto che fa chiedere a Gesù tramite i suoi discepoli: «Sei tu colui che deve venire, o dobbiamo attendere un altro?» 25.

Tale ostinazione del Battista a non comprendere, a dispetto di colombe, voci divine e cieli spalancati, fu piuttosto imbarazzante per la Chiesa antica, che tentò di spiegare i fatti affermando che il Battista fingesse di informarsi all'unico scopo di far conoscere ai discepoli quel che era realmente accaduto o dicendo ch'egli volesse sapere prima di morire se anche nell'aldilà poteva proclamare Gesù come colui che doveva giungere (Orig. Catene 83; hom. in I. Regn. 28. Cit. in Klostermann, cit., 94).

In Luca, che presenta Giovanni nell'atto di rendere omaggio al Salvatore non ancora nato, nel seno materno (Lc. 1, 41 sgg.), l'imbarazzante battesimo di Gesù viene appena sfiorato in una frasetta secondaria (Lc. 3, 21). E i cristiani posteriori cercano di attenuare il fatto in maniera sempre più imbarazzata: così, Gesù viene addirittura costretto a dire: «In che cosa ho peccato, per mettermi in viaggio e farmi battezzare da lui?» (Ev. Naz. 1), oppure attribuiscono tale esortazione all'iniziativa della famiglia di Gesù (Ev. Heb. fr. 3). Sant'Ignazio espresse l'opinione che col battesimo il Signore avesse voluto santificare l'acqua, e mille anni dopo Tommaso d'Aquino condivise ancora il parere di questo vescovo.

Il quarto e ultimo Vangelo canonico [di Giovanni] omette del tutto il battesimo di Gesù, sostituendolo con un inno solenne al Salvatore (Jh. 1, 15 sgg.), e polemizza sottilmente con il Battista, che la Chiesa convertirà poi in «precursore» di Gesù, mentre in realtà ne fu il concorrente.

Giovanni il Battista: non precursore, ma rivale

La rivalità fra i seguaci di Gesù e del Battista si può intravedere nel N.T., nonostante i tentativi di occultarla, riferendo a Gesù la sua predicazione messianica 26. Ma si può ancora riconoscere che la comunità del Battista e quella del Cristo avevano proprie preghiere e abitudini rituali concernenti il digiuno 27. «Il più piccolo» nel Regno dei Cieli è «più grande» di Giovanni, che non è degno di prestare a Gesù neppure il servizio più umile; il suo battesimo viene subordinato a quello cristiano e gli viene negato il ruolo di Messia 28.

Ciò traspare soprattutto dal quarto Vangelo: Gesù vi procede trasfigurato, una luce sovrannaturale lo illumina! Eppure, il portatore di tale luce era in origine il Battista 29, che fu venerato come il Cristo e ornato di altri onorifici attributi religiosi 30. L'Evangelista, al contrario, polemizza contro di lui, quando «precisa»:

«Non era lui la luce, ma egli doveva dare testimonianza della luce. La luce, quella vera, che illumina ogni uomo, veniva allora nel mondo» (Jh. 1, 8 sgg.).
Egli lascia continuamente intendere che sia lo stesso Battista ad ammettere la propria inferiorità: non è né il Messia né Elia né il Profeta. Non è degno di allacciare i calzari di Gesù: questi deve crescere, quello deve rimpicciolire (Jh. 1, 19 sgg.; 3, 30). Sebbene emerga dal Vangelo più antico che anche il Battista operò dei miracoli, il quarto Evangelista sostiene che «non ha compiuto alcun miracolo» 31. Certo, egli non viene del tutto svalutato (infatti, che significato avrebbe avuto allora la sua testimonianza?!), ma è pur tuttavia significativo che l'Evangelista non osi sostenere che Giovanni e i suoi discepoli divennero seguaci di Gesù, anche se il suo racconto lascia intravedere una conclusione del genere.

La setta del Battista non confluì nel Cristianesimo perché, come mostrano gli Atti degli Apostoli (18, 25; 19, 1) e il Vangelo giovanneo, vi sopravvisse accanto, convinta che Giovanni fosse il Messia. In Egitto, Asia Minore, Samaria, Siria e a Roma i suoi discepoli continuarono a predicare con zelo missionario, e ancor oggi, sulle rive dell'Eufrate, sopravvivono i seguaci del Battista riuniti nella setta dei Mandei 32.

Gli Evangelisti che scrissero dopo molto tempo,
idealizzarono anche i discepoli

Vengono eliminati tutti i difetti, che ancora in Marco sono loro propri.
(Il teologo Wagenmann, 61)
È abbastanza logico che il processo evangelico di idealizzazione, con cui i posteri affinano e innalzano sempre di più la figura del «Cristo», finisca col coinvolgere anche gli Apostoli.

Già Matteo abbellisce la loro immagine rispetto a Marco, impercettibilmente ma sistematicamente, o mediante correzioni o per mezzo di omissioni. Se in Marco dei discepoli si dice che non capirono Gesù, Matteo lo sottace, e anche più di una volta 33; in Marco Gesù dice: «Non comprendete ancora?», in Matteo sta scritto: «Allora compresero» (Cfr. Mc. 8, 21 con Mt. 16, 12). Se Marco racconta che ad avanzare la richiesta superba dei figli di Zebedeo di poter sedere alla destra e alla sinistra del Signore furono essi personalmente, Matteo assolve i due apostoli dall'accusa di ambizione, dicendo che fu la madre ad avanzare tale pretesa 34. Matteo capovolge semplicemente tutto ciò che gli appare sgradevole: se Gesù in Marco rimbrotta i discepoli:

«Non comprendete questa parabola? Come potete allora essere in grado di capire parabole?»,
Matteo nel passo corrispondente li esalta:

«Ma i vostri occhi sono beati, perché vedono, e le vostre orecchie perché sentono» (Cfr. Mc. 4, 13 con Mt. 13, 16).
Nel terzo Evangelista questa tendenza alla trasfigurazione è ancor più accentuata: Luca, infatti, omette del tutto la superba richiesta dei figli di Zebedeo, avanzata, secondo Matteo, dalla loro madre; allo stesso modo cassa il rimprovero di Gesù a Pietro: «Via dai miei occhi, Satana!» 35 e passa sotto silenzio la fuga dei discepoli durante l'arresto di Gesù 36, descrivendo in maniera assolutamente più favorevole il loro comportamento: essi non dormono più per pigrizia, ma «a causa del dispiacere» 37; Gesù li loda addirittura: «E siete voi che avete perseverato con me nelle mie prove» (Lc. 2, 28 ).

Non c'è dubbio che qui - non prendiamo in considerazione passi analoghi - ha luogo una complessiva idealizzazione. Le umane debolezze ben presto non si adattano più all'idea che i cristiani si devono fare dei primissimi compagni del Signore. E così già Matteo elimina tutte le ombre. E mano a mano che ci si allontana dall'epoca dei discepoli la loro immagine brilla sempre più pura, diventando perfetti quasi come il Signore stesso. Quando anche l'arte cominciò ad occuparsi di loro, i fedeli furono ben convinti ch'essi portassero l'aureola in capo già durante la loro vita terrena.

Ovviamente gli Evangelisti più recenti correggono anche inesattezze ed errori evidenti di Marco; ad esempio, in lui Davide mangia i pani della presentazione «quando era Sommo sacerdote Abiatar», ma Matteo e Luca ignorano questo passo, perché il fatto era accaduto quando era Sommo sacerdote Achimelech: Marco aveva scambiato Achimelech col figlio Abiatar 38.

Il Vangelo più antico, dunque, fu per la Chiesa quello meno utilizzabile, ed è significativo che i Padri della chiesa lo abbiano commentato assai raramente e che in numerosi manoscritti antichi esso sia stato relegato all'ultimo posto. E ancor oggi la Chiesa attribuisce la priorità al Vangelo di Matteo, proprio per il fatto che si tratta di un'edizione accresciuta e corretta di quello di Marco. Persino un teologo cattolico (Winkenhauser, 20) scrive che Matteo e Luca ebbero «sicuramente» l'intenzione di «creare qualcosa di migliore e di più completo rispetto a Marco». Ma come può lo Spirito Santo migliorare se stesso?

Come Matteo e Luca innalzano l'immagine di Gesù presente in Marco - un procedimento che sarà ulteriormente approfondito in relazione alla tradizione dei miracoli compiuti - così il Quarto Vangelo, a sua volta, eleva i propri eroi: Gesù viene quasi totalmente divinizzato; e si tratta di un processo assolutamente consequenziale. Ma prima di analizzarlo, è necessario illustrare il Vangelo di Giovanni nelle sue linee generali.

5. IL VANGELO DI GIOVANNI

... uno scritto dottrinale totalmente astorico.
(Heinrich Ackermann, Entstellung und Klärung, 34)
Fin dal II secolo gli Alogi 1 si resero conto che questo Vangelo si differenziava sostanzialmente dai tre Sinottici, tracciando un'immagine di Gesù completamente diversa. Nel XIX secolo i teologi David Friedrich e soprattutto Ferdinand Christian Baur dimostrarono brillantemente ch'esso fu ideato in vista di una determinata concezione dogmatica, senza alcun riguardo alla realtà storica, e che va inteso in senso squisitamente allegorico. Esso non può costituire una fonte per la predicazione di Gesù, ma piuttosto per il Cristianesimo dell'epoca postapostotica 2.

Il Vangelo di Giovanni non fu composto
dall'apostolo Giovanni

... il risultato ovvio di un'indagine non preconcetta, sul quale non può sorvolare nessuno storico serio e rispettoso della scientificità della ricerca. Fa semplicemente pena voler contrapporre degli espedienti apologetici all'evidenza dei fatti.
(Il teologo Hirsch) 3
Da oltre cent'anni, l'intera bibliologia critica disconosce l'attribuzione all'apostolo Giovanni del quarto Vangelo, dopo l'opera sagace del teologo Karl Theophil Bretschneider, apparsa nel 1820 (Probabilia de evangelii et epistularum Joannis apostoli indole et origine), e i lavori di D.F. Strauß e F.C. Baur. In epoca più recente i loro ranghi sono stati irrobustiti anche da un certo numero di ricercatori persino più conservatori, come anche la parte cattolica è costretta ad ammettere (Wikenhauser, 205).

Il quarto Vangelo vide la luce come minimo intorno all'anno 100, mentre il martirio dell'apostolo Giovanni ebbe luogo alcuni decenni prima, giacché venne ucciso col fratello Giacomo (Atti, 12, 2) nel 44, durante il regno di Erode Agrippa I, oppure (più verosimilmente) 4 nel 62, insieme a Giacomo, fratello del Signore.

Nel Vangelo di Marco, il martirio dell'Apostolo (passato serenamente a miglior vita in età avanzata, secondo la dottrina della Chiesa) è profetizzato dallo stesso Gesù, vale a dire che Marco gli attribuisce successivamente la paternità della profezia. Allorché Giacomo e Giovanni lo pregano di poter sedere alla destra e alla sinistra della sua gloria, egli domanda:

«Potete bere il calice, che io dovrò bere, o patire il battesimo col quale sarò battezzato?»;
e quando essi risposero affermativamente, egli profetizza (con gli Evangelisti, all'incirca fra gli anni 70 e 80!!):

«Voi berrete il calice che io dovrò bere, e anche voi sarete battezzati col battesimo, col quale sarò battezzato» 5.
Il calice di cui parla Gesù riguarda evidentemente il suo martirio e, altrettanto chiaramente, quello dei due apostoli Giacomo e Giovanni. Di Giacomo, figlio di Zebedeo, è nota anche la morte come martire, e sicuramente Marco era al corrente anche del martirio di Giovanni, altrimenti non avrebbe messo in bocca a Gesù quella frase, un chiaro vaticinium ex eventu. Sia il Martirologio Siriano sia quello Armeno del 411 menzionano come martiri «Giovanni e Giacomo, gli Apostoli, a Gerusalemme» 6.

Contro la paternità dell'apostolo Giovanni depone poi il fatto che fu sostenuta per la prima volta da Ireneo (adv. haer. 3, 1, 1), alla fine del il secolo; mancano testimonianze precedenti, e tutte quelle successive poggiano sulla prima. Per altro, Ireneo si lascia sfuggire diverse imprecisioni significative: ha confuso, probabilmente non a caso, l'apostolo Giovanni, che, a suo dire, visse in Efeso fino ad età avanzata, col vescovo Giovanni di Efeso, che visse in quella città intorno all'anno 100 7. Come attesta il vescovo Papias, questo Giovanni, una personalità evidentemente assai stimata in Asia Minore, si chiamava ancora intorno al 140 Presbyter, e subito dopo Apostolo.

È degno di nota in questo contesto che l'autore della Seconda e della Terza Epistola di Giovanni, che la Chiesa assegna, come d'altra parte tutti gli scritti giovannei, all'Apostolo, ogni volta si definisce all'inizio come «Il Presbyter». Ma perché, se egli era l'Apostolo? Perchè lo stesso Padre della Chiesa Gerolamo 8 disconosce all'Apostolo la Seconda e la Terza Epistola di Giovanni? E perché persino il papa Damaso I in un indice dei libri della Bibbia, da lui composto nel 382, attribuì due delle Epistole di Giovanni non all'apostolo Giovanni, bensì a un «altro Giovanni, il Presbyter» (alterius Johannis presbyteri)? 9.

Analogie onomastiche hanno spesso condotto la Chiesa antica a scambi vantaggiosi ovvero a vere e proprie azioni di contrabbando: in maniera del tutto analoga, ad esempio, sempre in Asia, alla fine del II secolo, l'«Evangelista» Filippo, più volte menzionato negli Atti degli Apostoli, divenne l'«Apostolo» Filippo. Lo stesso Ireneo, inoltre, ha confuso Giacomo, fratello dell'apostolo Giovanni, con Giacomo, fratello di Gesù.

A sfavore dell'identificazione dell'apostolo Giovanni col quarto Evangelista depone anche il fatto che il più esperto conoscitore dei fatti della Chiesa d'Asia Minore, il vescovo Ignazio (Ignat. Eph. 12, 2), non ne sa nulla: non se ne trova il minimo accenno. In una lettera agli efesini, Ignazio ricorda espressamente Paolo (Ign. Eph. 12, 2), il celebre fondatore di quella comunità, ma non cita neppure di passaggio l'apostolo Giovanni, che sarebbe vissuto e avrebbe operato a lungo proprio lì, amato e venerato da tutti, fin quasi ai giorni della nascita dell'opera di Ignazio. Le lettere di Ignazio, poi, non denotano alcuna influenza del quarto Vangelo, che pure avrebbe potuto fornire argomentazioni brillanti a questo fiero oppositore degli eretici.

Pesanti riserve, infine, contro la composizione di questo Vangelo da parte dell'apostolo Giovanni scaturiscono dal carattere del testo medesimo. Sarebbe stato scritto ben diversamente, qualora fosse stato redatto dal figlio di Zebedeo, il discepolo di Gesù, o sarebbe stato perlomeno una garanzia della personalità del suo redattore; infatti, lo spirito dell'Apostolo, quale è a noi noto attraverso i Sinottici, nulla ha a che fare con l'Evangelista.

Il quarto Vangelo è lo scritto più antiebraico del Nuovo Testamento: cosa ben strana, se Giovanni, il missionario fra i giudei, una delle «colonne» della comunità gerosolimitana, fosse divenuto un tale odiatore di ebrei. E poteva forse lui, l'ebreo-cristiano, continuare la teologia paolina, fondamento del Vangelo di Giovanni, ma combattuta dalla primitiva comunità giudaico-cristiana? E come si concilia il Giovanni sinottico, il «figlio del tuono» (Mc. 3, 17), col pacifico, dolce discepolo preferito di Gesù del quarto Vangelo? E com'è che questo Vangelo, che menziona vari discepoli di Gesù, non cita mai Giovanni e Giacomo, figli di Zebedeo, tanto spesso in primo piano nel racconto dei Sinottici?

E infine: se l'autore del Vangelo fosse davvero l'apostolo Giovanni, lo avrebbe scritto all'età di circa 100-120 anni, due, tre generazioni dopo la morte di Gesù; il che è francamente inverosimile: già da decenni erano stati scritti Vangeli da altri, che non avevano conosciuto Gesù; perché avrebbe dovuto aspettare per tanto tempo? Forse per la fiacchezza della memoria propria dell'età avanzata, con la quale oggi si cerca di giustificare le contraddizioni fra il Vangelo di Giovanni e i Sinottici?

Ma si tralascia o si sottace che «Giovanni», a dispetto dei disturbi di memoria, ha tenuto a mente più di loro discorsi di Gesù assai più ampi!, che stridono in modo davvero singolare con l'ispirazione divina e le amnesie! e che anche i Sinottici spesso si contraddicono, benché le differenze fra il quarto Evangelista, presunto testimone oculare, e i suoi predecessori, siano particolarmente grossolane e numerose.

Vediamo ora di fare una breve verifica.

Molte affermazioni del quarto Evangelista sono assolutamente inconciliabili coi Sinottici

Nei Sinottici Gesù chiama i suoi primi discepoli dopo l'arresto del Battista, in Giovanni prima (Cfr. Mc. 1, 14 con Jh. 1, 35 sgg.); nei Sinottici li chiama in Galilea, in Giovanni nella Giudea; nei Sinottici li incontra mentre pescano sul lago di Genezareth, in Giovanni sono discepoli di Giovanni il Battista (Cfr. Mc. 1, 16-20; Mt. 4, 18-22; Lc. 5, 1-11; Jh. 1, 35-51); nei Sinottici Gesù sceglie prima di tutti Pietro e Andrea, in Giovanni prima un anonimo e Andrea, quindi Pietro (ibid.). Nel quarto Vangelo ciò non viene narrato, ma molti vorrebbero superare le contraddizioni del testo dicendo che solo un secondo incontro con Gesù avrebbe condotto alla definitiva unione coi discepoli. In effetti, il fatto che nei Sinottici gli obbediscano immediatamente, costituisce proprio il punto culminante della storia 10.

Secondo Marco, Gesù avrebbe iniziato la sua attività pubblica dopo l'arresto del Battista da parte di Erode, nel Vangelo di Giovanni egli ha per qualche tempo operato insieme a lui (Cfr. Mc. 1, 14 con Jh. 3, 22 sgg. e 4, 1). Un evento tanto clamoroso come la purificazione nel tempio, che in Matteo e Luca si verifica il primo giorno dopo l'ingresso di Gesù in Gerusalemme, in Marco il secondo giorno, e in ogni caso, in tutti i Sinottici, verso la fine della sua attività pubblica, in Giovanni accade all'inizio di essa 11.

Diversamente dai Sinottici, Giovanni afferma che Cristo cacciò dal tempio anche pecore e buoi, ma nel tempio non si vendeva affatto bestiame, ma solo colombe! 12

L'unzione di Gesù in Betania costituisce in Marco la conclusione della sua opera in Gerusalemme, in Giovanni, invece, accade prima del suo ingresso in questa città 13

Gesù mantiene celata la sua missione messianica in Marco fino all'interrogatorio davanti al Sommo sacerdote, in Giovanni appare come Messia già nel primo capitolo, e pretende inoltre di essere riconosciuto tale dappertutto 14.

Nemmeno sulla data della crocifissione Giovanni si trova d'accordo coi Sinottici: secondo questi ultimi Gesù muore dopo aver festeggiato, il giorno prima, il banchetto pasquale coi discepoli, il 15 Nisan; secondo Giovanni viene crocifisso già prima della Pasqua, il 14 Nisan.

Nei Sinottici, che indicano solo una festività pasquale, l'uscita in pubblico di Gesù abbraccia un anno, un lasso di tempo che, data l'inaffidabilità della loro cronologia, non può essere determinata con certezza, ma che tuttavia appare assai verosimile; (certi teologi parlano addirittura di pochi mesi); per Giovanni, invece, nel quale si riscontrano due, forse tre differenti celebrazioni pasquali (Jh. 2, 13; 6, 4; 11, 55), l'attività pubblica di Gesù durò almeno due anni, o anche tre, come ritennero già Origene e Gerolamo.

Origene ci informa poi del fatto che, di fronte alle lampanti contraddizioni fra la tradizione sinottica e quella giovannea, molti cristiani giudicarono falsi i Vangeli, abbandonando la fede in essi 15; ciononostante il grande scrittore ecclesiastico li esorta a ricercare il loro vero significato spirituale e ad attenervisi, anche nel caso acclarato di un errore storico (ibid.).

Il Vangelo di Giovanni poté diventare utilizzabile dalla Chiesa solo mediante un'opera di rimaneggiamento

Inoltre, questo Vangelo, nato probabilmente in Asia o in Siria al principio del II secolo (come anche la Prima Epistola di Giovanni), venne rimaneggiato alcuni decenni più tardi, perché la Chiesa aveva condannato l'originale; e se non fosse stato troppo noto e popolare, forse lo avrebbe fatto scomparire del tutto. E così, verso la metà del II secolo, questo «scritto eretico» venne ecclesiastizzato da un anonimo redattore, che, limitandosi ad aggiunte senza ricorrere a soppressioni, non poté evitare le incongruenze. Nel testo antico gli ebrei figuravano quali creature del demonio: nella sua rielaborazione la salvezza viene proprio da loro 16! Interpolazioni ecclesiastiche più consistenti sono la pericope dell'adultera (Jh. 7, 53; 8, 11) e l'intero capitolo 21 17. Si può desumere, insomma, che il Vangelo si concluda col capitolo 20.

Il rimaneggiamento ecclesiastico si propose, fra l'altro, di far apparire il Vangelo come opera dell'apostolo prediletto Giovanni; e anche se il suo nome non viene menzionato, esso provvide non senza astuzia a che si proponesse, per così dire, da solo. I cristiani d'Asia Minore credevano di sicuro alla paternità dell'Apostolo, evincendone il nome dal testo più agevolmente che se egli stesso lo avesse dichiarato apertamente.

Negli ambienti «ortodossi», come già accennato, in un primo momento il Vangelo di Giovanni, pur così popolare, non godette di una buona fama. Gli «eretici» Valentino ed Eraclio lo rivalutarono per primi, riconoscendovi l'espressione di una personale convinzione religiosa 18. Eraclio ne scrisse persino il primo commento. Sembra anche che lo preferissero gli eretici montanisti; al contrario, non viene menzionato da nessuno dei Padri apostolici. E persino la Roma ecclesiastica vi si contrappose duramente sulle soglie del II secolo, talvolta con repulsione esplicita 19. In seguito, però, la Chiesa cominciò a porre in secondo piano o a reinterpretare attraverso il quarto Vangelo i Sinottici, più antichi e perciò più arretrati. In fondo, per gli scopi della Chiesa ufficiale, esso appariva più fecondo, nella misura in cui con la sua rappresentazione di Cristo - e con ciò ci ricolleghiamo al capitolo precedente - il processo di divinizzazione di Gesù era pressoché compiuto.

«Giovanni» e il suo Eroe

In questo Vangelo, ormai profondamente caratterizzato da tratti teologici e apologetici, il Gesù storico non ha più alcun ruolo. Secondo una sua esplicita attestazione, esso venne scritto per provare la divinità del Cristo (Jh. 20, 31).

Le notizie dei Sinottici, usate dall'Evangelista a suo piacimento, vengono spesso radicalmente riplasmate; si comporta, come è stato spesso osservato, come un drammaturgo nei confronti della sua materia 20. La Galilea, patria di Gesù, nei Sinottici il palcoscenico autentico della sua attività pubblica, qui scompare: Gesù opera perlopiù a Gerusalemme, sicuramente una reazione apologetica all'accusa degli ebrei, secondo la quale il divino Messia, originario del villaggio di Nazareth, per tutta la vita avrebbe predicato davanti alla povera gente ignorante della provincia, limitandosi a una brevissima comparsa a Gerusalemme.

Parole o echi del Gesù sinottico sono rare nel quarto Vangelo; eppure proprio i discorsi rappresentano la materia più importante dei Sinottici: spesso è assai incerto se parli Gesù o «Giovanni», tanto è impercettibile il trapasso dalla narrazione al commento 21. Il Cristo giovanneo parla solo in apparenza con la gente con cui l'Evangelista lo circonda; essa scompare dopo aver servito alla tecnica e alla dogmatica del narratore, il quale predica ormai alle comunità cristiane del II secolo, come ben dimostra il «colloquio» di Gesù con Nicodemo, bramoso di salvezza (Jh. 3, 1 sgg.), che l'autore pone di fronte a tutta una serie di dogmi creati successivamente, che Nicodemo non avrebbe mai capito, come, del resto, tutti i contemporanei di Gesù. Né era il suo linguaggio, ma quello dell'Evangelista, il quale scriveva per persone colte, con esangui allegorie e didattica monotonia, per combattere contro gli «eretici». Il Gesù storico non avrebbe entusiasmato le masse con discorsi simili, e i suoi avversari non lo avrebbero ritenuto pericoloso, ma tutt'al più pazzo.

Le tradizioni sinottiche intorno a Gesù, già assai lontane dalla realtà storica, nel Vangelo di Giovanni vengono completamente mitizzate. La concezione della «vita eterna» diventa più rilevante del «Regno di Dio» (Solo Jh. 3, 3-5), la figura del Messia rimuove l'idea del regno messianico, la sublimità del Predicatore l'oggetto della predicazione. Mentre il Gesù sinottico parla relativamente poco di sé, qui si colloca al centro dell'attenzione e fa della propria missione e divinità l'oggetto quasi esclusivo della propria predicazione. Già nel III secolo lo scrittore Origene osserva che nei Sinottici Gesù appare ancora più «umano» 22.

In realtà, in «Giovanni» egli viene pressoché divinizzato e, a differenza dei predecessori, si aggiunge anche la tesi della sua preesistenza: egli proclama che Gesù è stato prima di Abramo e che la fede nella sua mediazione è il presupposto per ottenere la salvazione: «chi vede me vede il Padre» 23 Molti attributi religiosi propri del tempo vengono assegnati a Gesù, tanto che molte definizioni mal si conciliano fra loro, come «Re dei giudei» e «Redentore del mondo». Il Cristo giovanneo è giudice del mondo e viene chiamato, addirittura «Dio» (Jh. 5, 22 sg.; 20, 28 ).

Si cominciarono a percepire come strane le preghiere di Gesù a Dio, che sarebbe dovuto essere lui stesso: il quarto Evangelista inserisce ripetutamente ed eloquentemente l'osservazione che l'atto della preghiera viene compiuto esclusivamente a uso e consumo delle persone che sono intorno a Gesù! Infatti, anche questo informatissimo Evangelista non sa ancora nulla delle sue due nature; il suo Cristo già si vanta: «Chi fra voi può attribuirmi una colpa?», mentre in Marco leggiamo «Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio soltanto» (Cfr. Jh. 8, 46 con Mc. 10, 18 ).

Il Cristo giovanneo è divenuto l'araldo di se stesso: fin dall'inizio incede nel mondo come l'Agnello di Dio, onnisciente e onnipotente, affrontando la morte senza batter ciglio. Ogni tratto d'umanità viene accuratamente evitato. Della lotta con le profonde angosce spirituali del Gesù sinottico nel Getsemani non v'è più traccia 24; e durante l'arresto il suo atteggiamento è mirabilmente maestoso 25. E non manca il miracolo: una sola parola e gli sgherri s'abbattono al suolo (Jh. 18, 6).

Per la verità su questo evento già nei Vangeli più antichi c'è qualcosa che non collima: mentre, ad esempio, Marco si limita a presentare gli sgherri inviati dai Sommi sacerdoti e dagli Anziani, in Luca compaiono anche costoro 26.

Per quanto riguarda la morte di Gesù, nel quarto Vangelo egli non spira col grido di disperazione raccontato da Marco e Matteo, ma col detto eroico, più esattamente eracleico: «È compiuto» 27. Infatti, allo stesso modo spirò anche Eracle, uno dei modelli più sorprendenti della figura biblica di Cristo. Nel Vangelo apocrifo di Pietro (vers. 102), apparso verso la fine del II secolo, Gesù tace «come se non sentisse alcun dolore». Il Padre della Chiesa Gregorio di Nissa (IV secolo) sostiene addirittura, per provare la divinità di Gesù, che alla sua nascita soprannaturale corrisponde una fine soprannaturale, e che perciò «la sua morte fu priva di sofferenze» .

Da un decennio all'altro la tradizione intorno a Gesù si evolve sempre più in senso miracolistico: il Vangelo più antico, composto fra il 70 e l'80, viene migliorato da Matteo e Luca, che scrivono fra l'80 e il 100, a loro volta superati di gran lunga dal più recente quarto Vangelo. Tale processo è poi portato avanti dai cosiddetti Vangeli Apocrifi, coi quali l'attività missionaria e la cristianizzazione sono proseguite né più né meno che con quelli autentici. Ciascun'opera tenta, per usare le parole del teologo Cullmann, «di far meglio dei predecessori», oppure, come scrive il teologo Marxsen, «si sente in dovere di aggiornare... il vecchio» 28.

Ma l'ininterrotto processo di sublimazione dell'immagine di Gesù si può evidenziare ancor più chiaramente attraverso l'analisi della tradizione evangelica dei miracoli, come mostrerà, seppure brevemente, la prima parte del capitolo che segue.


14/05/2006 17:44
 
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6. ULTERIORI AMPLIFICAZIONI DELLA FIGURA DI GESÙ

La moltiplicazione evangelica dei miracoli

Fu Matteo a dare inizio all'amplificazione, essendo per lui troppo riduttive le notizie fornite da Marco: non appena Gesù compare in pubblico, intorno a lui si affollano gli ammalati di tutta la Galilea, non solo, ma anche quelli provenienti dalla Siria. E se Marco ci fa sapere che a Cafarnao Gesù «guarì molti», ecco che per Matteo «guarì tutti» 1. Il che si ripete un'altra volta 2.

Con la tradizione i miracoli vanno via via moltiplicandosi; così è significativo che quando l'edizione accresciuta di Marco 3 parla di due guarigioni, Marco ne cita solo una; nel Vangelo di Marco Gesù, uscendo da Gerico, risana un cieco, Matteo dice che ne sanò due 4. (Anche Luca parla qui di una sola guarigione) (Lc. 18, 35 sgg.). In Marco Gesù guarisce un ossesso, cacciandone lo spirito maligno nel branco dei maiali 5, in Matteo gli ossessi guariti diventano due. Luca cita anche qui una sola guarigione (Lc. 8,26 sgg.).

Ma anche Luca, per la verità, riferendo di altri miracoli, si comporta come Matteo 6: mentre Marco e Matteo sono a conoscenza di una sola resurrezione, quella della figlia di Giairo (Mc. 5, 21 sgg.; Mt. 9, 18 sgg.), Luca arricchisce il Libro dei Libri con quella del fanciullo di Nain (Lc. 7, 11 sgg.). Suscita perlomeno una certa perplessità il fatto che Marco e Matteo passino semplicemente sotto silenzio questa seconda resurrezione, mentre menzionano tanti altri piccoli portenti.

A proposito della moltiplicazione dei pani, Marco parla di «circa» quattromila persone, Matteo accresce il miracolo trasformandole in «circa quattromila uomini», e soggiungendo: «Senza contare le donne e i bambini»: la folla, dunque, a sentir lui, sarebbe stata circa il doppio 7. La medesima esagerazione rispetto a Marco troviamo in Matteo nella «moltiplicazione dei pani di fronte ai cinquemila» 8 per altro un doppione abbastanza evidente.

Nel Vangelo di Marco, dopo il racconto della morte di Gesù, si dice semplicemente: «Ed ecco, il velo del tempio si squarciò in due, dall'alto in basso» (Mc. 15, 38 ), ma Matteo ne sa molto di più, aggiungendo alla notizia di Marco:

« ... la terra si scosse e le rocce si spezzarono, i sepolcri si spalancarono, e molti corpi di santi morti risuscitarono, e dopo la sua resurrezione uscirono dai sepolcri, entrarono nella città santa e apparvero a molti» (Mt. 27,51).
Di tutto questo Marco non sa nulla, né mostrano di averne avuto notizia gli storici, ai quali quest'evento sensazionale non sarebbe certo sfuggito 9.

Qualche volta Matteo incrementa i miracoli di Marco anche col più rapido compiersi d'un evento: ne è un chiaro esempio la maledizione dell'albero di fico; in Marco la pianta si secca il giorno dopo, in Matteo «immediatamente». In Marco, Pietro si ricorda dell'accaduto solo il giorno seguente, passando vicino all'albero, in Matteo, i discepoli discutono dell'immediatezza del portento subito dopo la maledizione. Per altro, in Marco la maledizione si verifica prima della purificazione del tempio, in Matteo il giorno dopo 10. Infine, se Marco non racconta alcun miracolo, Matteo ne inserisce qualcuno nel testo assunto da Marco 11.

È vero che una volta Matteo e Luca ignorano due miracoli narrati di Marco, ma con ciò essi non fanno altro che manifestare la solita tendenza idealizzante. Tali miracoli, per l'esattezza la guarigione del sordomuto e del cieco a Betsaida (Mc. 7, 31 sgg. e 8, 22 sgg.), vengono operati da Gesù ponendo la propria saliva sulla lingua del muto e sugli occhi del cieco, e poi con l'imposizione delle mani. Ma tali metodi non sembrano coerenti con l'idea dell'efficacia immediata delle sue parole; inoltre, si tratta di procedure allora spesso usate e a tutti ben note, tanto che discreditarono Gesù agli occhi degli Evangelisti più recenti, i quali, passando sotto silenzio queste azioni, vollero eliminarlo dal novero dei comuni ciarlatani dell'epoca. Anche i Rabbini, in seguito, riprovarono simili procedimenti 12. Per le medesime ragioni, il quarto Evangelista omette del tutto il racconto delle quotidiane guarigioni degli ossessi ingigantendo, per contro, altri miracoli.

L'assenza di queste esorcizzazioni di demoni nel Vangelo di Giovanni appare tanto più singolare se si pensa che il figlio di Zebedeo, il Giovanni autentico, aveva attribuito una grande importanza proprio agli esorcismi di Gesù: se fosse stato lui l'autore del Vangelo, di certo avrebbe loro concesso uno spazio privilegiato. E invece li passa sotto silenzio 13. Egli cita solo tre dei maggiori miracoli raccontati dai Sinottici, per altro esagerandoli 14 e ne aggiunge altri quattro, davvero grandi, per nulla menzionati dai predecessori.

Per ora esaminiamo la trasformazione dell'acqua in vino durante le Nozze di Cana (Jh. 2, 1 sgg.). È il miracolo inaugurale, un «miracolo di lusso» per altro, che, come scrive poeticamente lo scrittore cattolico Daniel-Rops (Jesus, 228 ), possiede il profumo sapido dei fatti di natura. In quell'occasione, il Gesù giovanneo crea da sei a settecento litri di vino, come risulta inequivocabilmente da Jh. 2, 6 sg. 15, benché pii esegeti talvolta vogliano ridurre questa rispettabile quantità, rimpicciolendo del tutto inutilmente la portata del miracolo.

Segue subito il miracolo sulle rive del lago di Betesda, la guarigione dell'uomo infermo da 38 anni, che a dimostrazione della sua ritrovata salute si carica in spalla il lettuccio e se ne va (Jh. 5, 1 sgg.), (esattamente come in una storia pagana, narrata 300 anni prima da un'iscrizione di Epidauro, nella quale Mida, morso da un serpente, dopo la guarigione prende su il lettuccio e se ne va con le proprie gambe: cfr. Lucian., Philops., 11). Poi, l'Evangelista ci offre la guarigione del cieco dalla nascita (Jh. 9, 1 sgg.). E infine, a coronamento del tutto, la resurrezione di Lazzaro, già in via di putrefazione: «egli ormai puzza» (Jh. 11, 1 sgg.). È davvero assai sconcertante che tutti e tre gli Evangelisti precedenti omettano completamente questo miracolo particolarmente grandioso, operato per giunta davanti agli occhi di tutti.

E anche qui dobbiamo sottolineare il processo di ingrandimento delle resurrezioni evangeliche: in Marco, Gesù salva la figlia di Giairo, appena defunta o sul punto di morire. Infatti, Gesù dice: «La fanciulla non è morta, dorme soltanto» (Mc. 5, 39); Luca, che scrive dopo, narra il risveglio del giovinetto di Nain, di cui nulla sanno gli altri Evangelisti, che è morto già da tempo, tanto che Gesù lo incontra durante il seppellimento (Lc. 7, 11 sgg.). E adesso il quarto Evangelista ci parla di questo Lazzaro (della cui miracolosa salvazione tacciono tutti gli altri Vangeli), che giace già da quattro giorni nella tomba e ormai puzza 16.

Il Vangelo di Giovanni esibisce miracoli grandiosi; tutto si compie in grande stile, rinunciando a vari dei portenti dei Sinottici, che allora accadevano piuttosto spesso: ma qui i miracoli sono descritti «affinché crediate» (Jh. 20, 30 sg.).

La prosecuzione dell'esagerazione dei miracoli neotestamentari nei cosiddetti Apocrifi

I numerosi Vangeli «apocrifi», gli Atti degli Apostoli, le Epistole e le Apocalissi mostrano in maniera ancor più evidente il modo in cui la figura di Gesù venne fascinosamente trasfigurata dalla fantasia dei cristiani. È certamente vero che nel IV secolo, accingendosi alla definizione del canone del N.T., la Chiesa li ha espunti, dichiarandoli costruzioni leggendarie seriori (ma anche i Vangeli «autentici» lo erano in misura notevolissima!). Significativamente le esagerazioni «apocrife» riguardano non il periodo dell'attività pubblica di Gesù descritta nella Bibbia, considerata, a quanto pare, abbastanza convincente, ma esclusivamente l'epoca precedente il suo battesimo (Hennecke, 76).

In un primo tempo, comunque, gli «Apocrifi» (dal gr. apokrypto = celo, nascondo) non erano affatto considerati tali: l'opera missionaria ebbe luogo con tutti gli scritti sacri, soprattutto nella Chiesa orientale, ma anche in quella occidentale. I Padri della Chiesa più famosi si fecero garanti di quei testi poi condannati 17. La maggior parte degli antichi teologi li ritennero di derivazione apostolica e quindi assolutamente veri, e alcuni furono talvolta preferiti ai libri neotestamentari. Inoltre, numerosi scritti cristiani sono più antichi del N.T., per non parlare del fatto che talune parti degli Apocrifi vennero interpolate negli antichi Codici neotestamentari, specie nel manoscritto D.

Infine, la Chiesa stessa, con l'arbitrarietà che le è propria, riconobbe libri apocrifi, soprattutto del V.T., accogliendo non il Vecchio Testamento ebraico dei giudei di Palestina, ma la redazione usata dalla cristianità antica, cioè la traduzione greca dei Settanta e la Vulgata, la traduzione latina di Gerolamo. Questi libri, tuttavia, erano stati ampliati, rispetto al Canone ebraico originale, con l'inserimento di un gran numero di Apocrifi (Terzo Esra, Judith, Jesus Sirach, Sapienza, Salomone, il Libro dei Maccabei ecc.) e dal Concilio di Trento del 1546 vennero ufficialmente riconosciuti come canonici la maggior parte di questi Apocrifi, per altro mai citati da Gesù, che pure menziona spesso il V.T.: fu definitivamente riconosciuto il testo della traduzione greca del V.T., benché spesso non corrisponda affatto all'originale ebraico.

Secondo la leggenda, 72 traduttori ebrei, ciascuno per proprio conto, produssero la stessa traduzione, parola per parola, e questo miracolo fu accreditato senza remore da tutti i Padri della chiesa, compreso Agostino 18.

La Chiesa evangelica, in ogni caso, si differenzia da quella cattolica, accogliendo il V.T. secondo il Canone ebraico e tollerando nelle proprie Bibbie solo una parte degli Apocrifi.

Per un'analisi storico-critica del Cristianesimo è ovvio che siano prese in esame tutte le fonti, e non solo quelle che si sono più o meno modellate sulle esigenze della Chiesa, ricevendone il «riconoscimento» ufficiale. Negli Apocrifi, infatti, anche laddove sono evidenti rielaborazioni posteriori o degenerazioni, resta ben vivo e riconoscibile, come scrive il teologo Hennecke, lo spirito del Cristianesimo primitivo 19. Per esempio, in un Vangelo attribuito all'Apostolo Tommaso, rielaborato persino dalla Chiesa antica, dalle mani di Gesù ancora bambino di cinque anni volano via alcuni passeri plasmati con la creta. Il divin bambino dissecca come un albero un compagno di giochi piuttosto fastidioso, ma subito dopo lo richiama in vita 20. Il Padre della Chiesa Epifanio di Salamina, cui il secondo Concilio di Nicea (787) conferì il titolo di «Patriarca dell'ortodossia», non soltanto prestò piena fede a questi miracoli del Vangelo di Tommaso, ma se ne servì nella sua lotta contro gli «eretici» 21.

All'apostolo Giovanni si attribuì la tesi, che le grandiose azioni di Gesù non potrebbero essere «forse né raccontate né ascoltate» (Act. Joh. 93), eppure i miracoli di Gesù Bambino avvenivano tramite l'acqua del suo bagnetto, i suoi pannolini e il suo sudore (Hennecke, 83): infatti, come si esprime solennemente un Padre della Chiesa del IV secolo (Gregorio di Nissa): «Se le notizie intorno a Gesù restano relegate nell'ambito della natura, dove sarebbe allora il divino?» 22.

Appare fuori luogo lo zelo di moderni cattolici (come Daniel-Rops, Jesus, 27) sulle «evidenti esagerazioni» e sulle «enormi incongruenze temporali» degli Apocrifi, che «lasciano trapelare invenzioni di basso rango», (una formulazione, del resto, che induce alla conclusione ch'esistano invenzioni «d'alto rango»), anche se molte storie di miracoli contenute nel N.T. non sono certamente migliori: in effetti, è poi così grande la differenza fra i miracoli operati dai pannolini e dal sudore del Bambin Gesù e quelli attuati dai fazzoletti o dalle camicie di Paolo? Eppure questi miracoli si trovano nella Bibbia! (Atti, 19, 11). E poi, perché mai le resurrezioni degli Apocrifi sono esagerazioni, mentre quelle del N.T. non lo sono più?

Gli Apostoli forniscono prestazioni eccezionali anche negli Apocrifi: all'avversario Simone, Pietro fa leggere da un lattante, con profonda voce virile, il Levitico; anzi, riesce a far parlare addirittura un cane: «Che cosa mi ordini di fare, tu, servo dell'ineffabile Dio vivente?» - chiede il cane appena liberato dalla catena. E perché non potrebbe essere accaduto? Nel V.T. Dio fa parlare un asino (5 Mos. 22, 28 sgg.). Persino un tonno affumicato, appeso a seccare a una finestra, al cenno di Pietro sguscia di nuovo vivo e vegeto, piroettandosi in mare. Non c'è da meravigliarsi che molti, assistendo a tali portenti, abbiano abbracciato la fede cristiana (Actus Petri cum Simone, 15, 12-13).

Tutti gli «Apocrifi», ci sia consentito di sottolinearlo ancora una volta insieme a un esperto della materia 23, sono stati «concepiti con serietà», sono stati «attestazioni di fede». Se ne evince che allora si credeva a tutto... anche a uno stoccafisso risuscitato e rispedito in mare.

continua

14/05/2006 18:01
 
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CHI SEI ???
14/05/2006 18:10
 
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Presentazione?
Ciao piaccapi,

Hai fatto due post molto lunghi, ma neanche una breve presentazione, mi sembra poco corretto.

Dovresti prendere nota del riquadro che indica la presentazione e l'approvazione del gestore del forum, Achille, indispensabili, dopo leggerò i tuoi post.

A presto
Muscoril/Matisse

[Modificato da Muscoril 14/05/2006 18.10]

La verita' non danneggia mai una giusta causa. M. K. GANDHI
14/05/2006 18:58
 
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Muscoril ha scritto:

Ciao piaccapi,

Hai fatto due post molto lunghi, ma neanche una breve presentazione, mi sembra poco corretto.

Dovresti prendere nota del riquadro che indica la presentazione e l'approvazione del gestore del forum, Achille, indispensabili, dopo leggerò i tuoi post.

A presto
Muscoril/Matisse

Il fatto che il regolamento preveda una presentazio e per essere ammessi nel forum sembra venga costantemente ignorato da vari personaggi che entrano nel forum e, ignorando non solo il regolamento ma anche le più elementari regole della "netiquette", cominciano a postare messaggi chilometrici, che c'entrano fra l'altro poco o nulla con gli obiettivi di questo forum, e poi, quando si chiede loro di presentarsi, scompaiono.
Cliccando sul nome di questo utente si nota fra l'altro che è proporio "sconmparso" del tutto. Si legge infatti:
«L' utente 1030027 e' inesistente oppure si e' cancellato».

freeforumzone.leonardo.it/viewprofilo.aspx?f=47801&a=0&ID=1030027&id...

Mi ricorda qualcun altro...

Saluti
Achille/moderatore
14/05/2006 19:05
 
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piaccapi ha scritto:

...continua

A sì? E con quale altro nick ti ripresenterai?
Fino ad ora di diverse (e false) identità mi sembra che tu ne abbia già usate parecchie...

Lascio rimanere questo messaggio, i cui contenuti fra l'altro sono già stato discussi da Polymetis in altre sedi.
Se Polymetis lo vorrà potrà intervenire anche qui, non per discutere con questo "anonimo" utente, che è entrato nel forum abusivamente, ma solo per inserire anche qui, se lo riterrà opportuno, le sue osservazioni sui contenuti di questi studi, che risultano essere ormai obsoleti dopo le più recenti scoperte.

Sposto anche questo intervento, unificandolo al primo, nella sezione "Fuori tema".

Achille/moderatore

[Modificato da Achille Lorenzi 14/05/2006 19.10]

14/05/2006 19:31
 
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Re:

Scritto da: Achille Lorenzi 14/05/2006 19.05
Sposto anche questo intervento, unificandolo al primo, nella sezione "Fuori tema".



sgrunt... tutta l'immondizia finisce sempre nella "mia sezione" [SM=g27828]
Comunque il caro Deschner è stato già screditato anche qui

http://freeforumzone.leonardo.it/viewmessaggi.aspx?f=47801&idd=2927


[SM=x570892]
15/05/2006 06:28
 
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Ma perché, visto che l'interessato è sparito per andare in altro paese non gli spediamo a quel paese le sue cose che ha depositato qui senza pagare l'affitto?... [SM=x570867]

La "Storia criminale del Cristianesimo del Deschner" io l'ho collocata tra i libri humour. [SM=g27835]
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